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MONTI TORNA ALLA CARICA: VIA LE PROVINCE CON MENO DI 350.000 ABITANTI

Quattro in meno in Piemonte. Secondo il piano del governo sarebbero 49 le province a rischio (50 meno Aosta che è provincia autonoma e si salverebbe). Sotto, l’elenco. Sparirebbero da noi le province di Asti, Vercelli, Biella e Verbano-Cusio-Ossola.

da La Stampa
di Alessandro Barbera
Roma –
Abolizione delle Province: alzi il braccio chi, almeno una volta nella vita, non ha letto un articolo che la promettesse. Sul tema il governo Berlusconi sfiorò il ridicolo. Prima ipotizzò di cancellarle, poi di abolirne solo alcune, poi ancora per tenere in piedi quelle dell’estremo nord governate dalla Lega – si inventò l’eccezione per quelle di confine. Alla fine sono ancora tutte lì con l’eccezione (sulla carta) delle sarde, tagliate a furor di popolo per referendum.
In verità, il decreto SalvaItalia (il primo del governo Monti) l’abolizione dei consigli provinciali la prevede, ma la lobby, messasi subito all’opera, ha bloccato la legge che avrebbe dovuto attuarla. Sono rimaste nel limbo solo alcune Province, quelle in cui si sarebbe dovuto andare a votare, e ora governate da un commissario. Ora siamo al dunque. Il premier ha deciso di portare al vertice europeo di fine mese un pesante pacchetto di tagli, trenta miliardi in tre anni. Cinque quest’anno, dodici nel 2013, tredici nel 2014.
Ieri, durante una riunione con l’Unione delle Province e alcuni presidenti, il ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi ha fissato tempi severissimi: cinque mesi. Entro la fine dell’anno il governo è deciso a cancellare circa quaranta Province. Fonti di governo spiegano che «si lavora ancora ai principi», e che i confini precisi del taglio saranno resi noti più avanti. Eppure circolano numeri ben precisi: l’abolizione di tutte le Province con meno di 350.000 abitanti, l’attribuzione a quelle che restano di poteri minori, fatte salve quelle dei grandi centri urbani.
Alcune Regioni hanno già preparato il piano di tagli. Il Piemonte, ad esempio. Delle attuali otto ne resterebbero in piedi solo quattro: Torino, Novara (accorperebbe Vercelli, Biella e Verbano-Cusio-Ossola), Alessandria (che assorbirebbe Asti) e Cuneo. In Toscana, Firenze accorperebbe certamente Prato e Pistoia, mentre sparirebbero Siena e Massa Carrara.
L’ultimo progetto dell’allora Ministro Calderoli prevedeva di cancellare tutte quelle al di sotto dei 300mila abitanti: allora erano in tutto 38. Se fosse confermata la stima delle fonti presenti all’incontro, questa volta quelle interessate sarebbero più o meno quaranta. Molto a questo punto dipenderà da dove verrà fissato il limite di estensione territoriale.
Se il progetto sarà (questa volta) davvero attuato, si porterà con sé l’abolizione o il forte ridimensionamento di tutte le sedi di governo locali: prefetture, uffici ministeriali, decine e decine di enti pubblici e società, dagli «ambiti ottimali» per la gestione dell’acqua ai consorzi di bonifica fino alle holding di alcune Province. Sulla carta il pacchetto di tagli messo a punto da Patroni Griffi e dai colleghi Cancellieri e Giarda varrebbe cinque miliardi di euro dei trenta ipotizzati dal governo. Per tutti coloro che occupano gli uffici che verranno chiusi si prospettano il trasferimento ad altra sede (e mansione) o, se vicino all’età della pensione, la cassa integrazione già prevista da una delle manovre del governo Berlusconi. Il progetto prevede due tappe: la prima con il decreto di fine mese, la seconda nella legge di Stabilità, in autunno.
Finora la lobby delle Province, riunita sotto le insegne dell’Upi, si è opposta a tutti i progetti. Stavolta – almeno a parole – è tutta un’atra musica. «La politica è di fronte a una scelta coraggiosa, l’unica possibile per semplificare senza demagogia», dice il torinese Saitta. Si mostra possibilista persino il catanese (e presidente dell’Upi) Giuseppe Castiglione, finora fiero difensore di un’altra vicenda grottesca, quella delle Province siciliane. «Da oggi con il governo si apre un tavolo di confronto». O siamo davvero al volgere della storia, o gatta ci cova. Tertium non datur.


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