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IL PENSIERO DI LOCKE, PADRE DEL LIBERALISMO

NIHIL EST IN MENTE QUOD PRIUS NON FUERIT IN SENSU

terza parte
La critica di Locke comincia dalla definizione stessa di innatismo, data a suo tempo da Platone: innate sarebbero quelle idee presenti nell’uomo fin dalla sua nascita e che non si acquisiscono con l’esperienza, bensì sono, appunto, innate e presenti in tutti gli uomini. Dunque, stando a questa definizione, se l’idea di Dio fosse innata dovrebbe essere radicata nella mente di ogni uomo, in ogni luogo e in ogni tempo. Locke fa notare come certe popolazioni retrograde dell’America non credano in nessun dio e non abbiano insita nella loro mente nessuna idea innata di Dio. Con lo stesso criterio Locke fa notare che, se l’idea di bene e di male fosse innata, dovrebbe essere presente nella mente di tutti gli uomini fin dalla loro nascita, ma ciò che per noi europei è un male, per le popolazioni più arretrate dell’America è un bene.
Il cannibalismo ad esempio. Ecco allora che non tutti gli uomini hanno lo stesso concetto di bene e di male, concetto che, secondo le tesi innatistiche, dovrebbe essere invece uguale e presente in tutti gli uomini. Di conseguenza, spiega Locke, l’idea di Dio, di bene e di male, e tutte le altre idee, non sono innate, ma derivano dall’esperienza, dal contesto in cui si vive o dalla cultura che si ha: nihil est in mente quod prius non fuerit in sensu “Nella mente non c’è niente che non sia già iscritto nei sensi” ha scritto San Tommaso d’Aquino. Allo stesso modo Locke dimostra che le verità matematiche e logiche non sono innate perché non è possibile che si nasca con alcune verità matematiche già insite nella propria testa, e il caso più esplicativo è quello del bambino che le apprende un po’ alla volta partendo da zero. Tuttavia non mancheranno le critiche alle affermazioni di Locke: all’incirca negli stessi anni l’innatista Leibniz gli farà notare che ciò contro cui muove le critiche non è l’innatismo. Leibniz è pienamente cosciente che sarebbe assurdo dire che si nasce con delle idee già in testa e risolve il tutto in un innatismo virtuale, facendo notare a Locke che ciò che intendono gli innatisti è diverso da quanto sostiene lui. Infatti secondo Leibniz non nasciamo con delle idee in testa, bensì con degli elementi di potenzialità e l’esperienza serve proprio a far emergere, a chiarificare ed a portare a coscienza le idee che potenzialmente erano già presenti nella mente fin dalla nascita, e in tutti gli uomini. L’idea di uguaglianza, spiega Leibniz, ce l’abbiamo tutti insita nella nostra mente ma abbiamo bisogno di cose materiali che siano uguali per prendere coscienza di che cosa sia l’uguaglianza, per portare cioè in atto quell’idea che nella nostra testa era solo in potenza. Ma Locke non accetta la correzione leibniziana facendo rispetto alle idee un po’ il gioco che faceva Spinoza con le sostanze cartesiane, portando il tutto alle estreme conseguenze. Locke parte dalla definizione di idea, così come Spinoza era partito da quella di sostanza, per dimostrare che le tesi dell’avversario sono sbagliate. Idea è qualsiasi oggetto della mente umana. Diceva Cartesio: tanto un triangolo pensato quanto un colore percepito. Locke fa notare che, stando alla definizione cartesiana (che aveva portato il filosofo francese all’innatismo), un’idea per definizione non può esistere se non pensata, bensì esistono solo le idee nel modo in cui sono pensate dalla mente umana. Ma con questa definizione di idea diventa contradditorio parlare di innatismo. Come si può infatti dire che da bambino ho nella mia testa certe idee che non conosco, e alle quali non penso e poi, crescendo, le acquisisco portandole in atto con l’esperienza? È contradditorio ammettere l’esistenza di idee non pensate nella mia mente di bambino, proprio perchè le idee esistono solo come oggetti della mente. Tuttavia, giunti a questo punto, è bene fare una precisazione: con gli esempi delle tribù retrograde dell’America che hanno un concetto di bene e di male diverso dal nostro si potrebbe essere indotti a credere che Locke sostenga il relativismo culturale. Sarebbe un grave errore pensare che, poiché non in tutti gli uomini bene e male sono intesi allo stesso modo, sia lecito parlare di un relativismo etico di Locke. Egli è fortemente convinto che un bene e un male ci siano, così come è convinto che Dio esista e sia razionalmente dimostrabile la sua esistenza. La verità esiste ed è quella, non v’é nulla del relativismo protagoreo in Locke. Ma siccome le idee non sono innate, non tutte le culture e gli uomini arrivano allo stesso tempo ad individuare le stesse concezioni di bene e di male. Il bene per il pensatore inglese è uno solo, però non tutti gli uomini vi arrivano allo stesso modo, nello stesso tempo e correttamente. Così come se dieci persone diverse risolvono la stessa espressione algebrica arrivando a dieci risultati diversi significa che nove di essi (se non tutti) hanno sbagliato. Così anche per dieci persone che siano arrivate a dieci concezioni diverse di bene e di male, nove avranno sbagliato e uno solo avrà optato per quella giusta (o magari hanno sbagliato tutti). Locke imposta la sua parte costruttiva nella conoscenza che non passa, come dimostrato, per l’innatismo e, per questo motivo, deve per forza essere di tipo empiristico. Non c’é nulla nel nostro intelletto che prima non sia passato per i sensi.

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