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DALLA MICROSTORIA ALLA STORIA: IL CAPPELLO DI NAPOLEONE, DI ALESSANDRA FERRARI E GRAZIELLA GABALLO

Ovada (AL) – Sabato prossimo otto dicembre allo Spazio Sotto l’Ombrello in Scalinata Sligge sarà presentato il libro di Alessandria Ferrari e Graziella Gaballo “Il Cappello di Napoleone”, giunto alla nona edizione. Non si sa se Napoleone, prima della battaglia di Marengo, soggiornò davvero nel castello di San Cristoforo  e vi dimenticò il cappello, ma la storiella è bella, tipica del repertorio popolare che spesso tira in ballo i potenti per sentirsi parte della Storia, quella con la “S” maiuscola. Storia che ha percorso e percorre i nostri paesi con i suoi eventi epocali e con tante microstorie che da quegli eventi si sviluppano e restano segnate, al di là di un’evidente apparenza. Basti pensare alle guerre e ai caduti più che ai reduci, cancellati per sempre dalla Storia e dalle storie, nomi sempre più sbiaditi sulle lapidi commemorative. Ebbene, se non vogliamo che le migliaia di storie dei nostri paesi svaniscano nel nulla e facciano la fine di quei caduti che nessuno è stato mai capace di rievocare, dobbiamo fare ciò che hanno fatto Alessandra Ferrari e Graziella Gaballo a San Cristoforo: raccogliere dalla viva voce della gente la memoria del passato, di quel passato che dà ancora un senso proprio al termine in quanto è fatto di abitudini, usi e costumi che sono perdurati per secoli e che nel secolo scorso, nel giro neanche di cinquant’anni, sono letteralmente spariti, travolti dalla furia del benessere materiale. L’hanno fatto ancora in tempo le nostre due ricercatrici, prima che il trascorrere degli anni, inesorabile, si portasse via gli informatori originali e non rimanesse loro che rivolgersi a generazioni che quelle cose le hanno soltanto sentite dire. Perché un conto è “la memoria” e un altro la “memoria di memorie”. Il libro che ne è scaturito è un esempio di ricerca sistematica nell’ambito di una comunità per ricostruire, attraverso le tante storie individuali, la sua storia collettiva a partire dagli anni venti del ’900 quando i testimoni furono bambini; e accompagnarli poi lungo tutto il secolo, attraverso i grandi eventi storici e i mutamenti socioeconomici sopravvenuti. E tutto questo farlo nel segno del dialetto, la lingua della memoria: del resto sarebbe impossibile raccontare le microstorie di una comunità rurale senza la chiave indispensabile della sua lingua. Tutto risulterebbe alterato, perché non c’è peggior cosa che far raccontare a un autoctono con la lingua dell’acculturazione: si perderebbe spontaneità e icasticità, ci vorrebbero giri di parole là dove ne basta una. Ma le parole, nella storia di una comunità, sono anche denominazioni che plasmano persone e luoghi e le segnano per sempre: è il mondo ironico e sferzante degli antroponimi (i soprannomi individuali e collettivi) o quello plasticamente immaginifico dei toponimi (nomi dei luoghi). “Qua ogni zolla cambia nome” dice un informatore, ed è disponibile a sciorinare centinaia di denominazioni anche per un solo versante di una collina; e lì è un rimescolio di termini vegetazionali o legati alla conformazione del terreno o alla trasfigurazione della stessa o a qualche aneddoto o leggenda che si perde nella notte dei tempi. E allora vengono fuori nomi ancestrali, primitivi, che nessun parlante dialettale per quanto anziano sarà in grado di tradurre, ma che stimolano il piacere fonico e semantico di interpretare un termine che porterà magari per sempre con sè il segreto del suo significato.
Con questo lavoro, che dovrebbe diventare di esempio per le altre comunità del nostro territorio, Alessandra e Graziella hanno salvato la “memoria d’uomo” di San Cristoforo, fornendo a tutta la sua comunità uno strumento collettivo attorno al quale riaggregarsi per mantenere quell’identità senza la quale un paese non è più un paese.

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