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GIORNATA DELL’AMBIENTE 22 – INQUINAMENTO DELL’ACQUA: ASPETTI IGIENICI E RADIOATTIVITÀ

Sorprendentemente e mostrando grande malafede i movimenti ambientalisti “globali” si sono accaniti contro gli inquinanti dell’aria dimenticando, o quasi, di organizzarsi anche contro quelli dell’acqua e del terreno. Ricordiamo che si dice “inquinante” una sostanza che immessa in un ambiente produce danni a esseri viventi e anche a cose, per esempio monumenti storici e manufatti in generale, e parliamone a proposito dell’acqua. Da millenni le più grandi calamità subìte dalle comunità umane sono trasmesse da acqua impura e non certo dall’aria. Le grandi pestilenze che dopo le Crociate affliggevano periodicamente e frequentemente l’Europa furono favorite da condizioni non igieniche dovute a insalubrità dell’acqua, e da millenni si sapeva che bastava avvelenare pozzi o acquedotti dei nemici per vincere guerre che l’inferiorità numerica avrebbe fatto perdere. Era però anche noto che bastavano precipitazioni abbondanti, ovvero lavare le zone infette o diluire abbondantemente i centri di infezione, per attenuare almeno temporaneamente le grandi pandemie (forse solo la tubercolosi si diffonde specialmente per inalazione). Si noti allora la doppia funzione dell’acqua sulle sostanze ad essa estranee: quella del lavaggio (asportazione di sporcizia per mezzo di getti di acqua pulita) e quella dell’inquinamento, cioè della diffusione di sostanze nocive consumate da esseri viventi insieme all’acqua stessa. La “fognatura” somma le due funzioni, immettendo in un corso d’acqua, naturale o artificiale, ma pulito, i contenuti dell’acqua di lavaggio (acque reflue, generate da attività e funzioni fisiologiche di esseri viventi) e trasportandoli in modo “controllato”: acqua inquinata che prima di un nuovo utilizzo deve essere in qualche modo ripulita, naturalmente o artificialmente, con mezzi fisici (p. es. evaporazione e condensazione) o chimici (p. es. combinazione con sostanze, che precipitano sul fondo, o, meglio, cattura con filtri).

LA CLOACA MAXIMA E I BARBARI
La soluzione migliore è combinare i rimedi. Evidentemente ai primordi si contava sulla diluizione della sporcizia in grandi flussi di acqua e sullo scarico di tali flussi a distanza notevole dagli esseri viventi e dal terreno utilizzato. Resti di fognature risalenti al 2600 a.C. si sono ritrovati, come ogni altra opera di ingegneria “avanzata”, nel civilissimo Egitto, ma l’usanza si diffuse: circa 2000 anni dopo gli Antichi Romani finalmente e provvidenzialmente costruirono la grande Cloaca Maxima  e certo trasferirono in parte la “tecnologia” (così come fecero con le terme) a quei popoli che subendo il loro dominio acquisirono la loro civiltà. Ma è un fatto che ancora nel vicino ‘800 l’immensa Londra descritta da Dickens facesse conto sulle piogge, da sempre frequentissime, per togliere i rifiuti dalle strade (o accumularli negli intasati canali di scorrimento), perché la gente, a quei tempi e spesso ancor oggi, non sapeva fare di meglio che gettare nelle strade le proprie immondizie; negli stessi anni invece a Parigi esisteva una rete fognaria così ricca e complessa da potersi paragonare alle catacombe dei Cristiani, tanto che vi si potevano rifugiare i ricercati dei moti postnapoleonici, come è descritto ne “I Miserabili” di V. Hugo. Si dice poi (ma è notizia “di regime”) che in tutta l’URSS solo 18 città fossero dotate di fognature prima della Rivoluzione. Ma questo è niente di fronte alla situazione che si presentava ai visitatori ancora negli anni ’70 del secolo scorso: a Londra, ma anche in Germania e in Francia, l’acqua corrente nelle case non era affatto comune, come lo era invece nell’”incivile” Milano; io stesso nei bar di Londra ho visto servire la birra in boccali che erano appena stati “puliti” solo agitandoli nell’acqua versata una volta al giorno in grandi cassoni di lamiera (chissà se il nostro Fulco Pratesi, dignitario emerito del WWF, non abbia tratto ispirazione dai riveriti ma sporchissimi Inglesi per dettare i suoi suggerimenti sul risparmio dove l’acqua c’è in abbondanza, come a Milano); a volte dopo il “lavaggio” quei boccali erano perfino “asciugati” con uno scovolo o uno straccio, mai sostituiti. A Mosca o San Pietroburgo i grandi alberghi si vantavano di offrire solo acqua preventivamente bollita per uccidere i germi, così come per le strade e in luoghi pubblici esistevano distributori a gettone di bevande (brodo caldo compreso), eventualmente gasate o aromatizzate, la cui acqua si garantiva essere stata bollita: ancor oggi molti Russi residenti in Italia cucinano e si lavano i capelli con acqua minerale o precedentemente bollita. A Monaco (Baviera) ancora oggi le suole delle scarpe si appiccicano ai pavimenti dei bar a causa della birra traboccante dai boccali; impressionante passare dieci minuti nella Hofbräuhaus di Monaco, resa famosa da Hitler: uomini e donne che si accalcano nella birreria non si liberano dell’eccesso di liquido nei servizi (poco) igienici, del resto quasi inesistenti; le funzioni corporali dei clienti si espletano direttamente contro i lampioni dei marciapiedi che si trovano all’immediata uscita dei bar, per poter rientrare subito dopo nel locale o sotto un tendone e continuare a cantare oscillando e tenendosi a braccetto seduti sulle lunghe panche, rifacendo subito il “pieno”. Praticamente si fa lo stesso in Gran Bretagna, ma bisogna ammettere che in quel Paese c’è grande abbondanza di spaziose “toilette” aperte giorno e notte, dove i bevitori delle tradizionali 10-14 pinte di birra (più leggera e calda di quella tedesca) si recano allegramente in comitiva, senza sporcare troppo i marciapiedi: una notte, da solo alla ricerca di un bar a Heathrow, pensai di seguire un gruppo che sembrava avere le idee chiare, ma mi trovai immancabilmente con loro nei gabinetti pubblici. Non che ci si comporti molto diversamente in Scandinavia, ma in quei civilissimi Paesi l’abbigliamento deve essere corretto ed elegante anche per farsela addosso nelle strade. Il Belgio è praticamente come la Germania, mentre la Svizzera cura molto la pulizia e cerca di nascondere l’ubriachezza. In Olanda si fa tutto in privato: in molti bar è vietata la vendita di alcoolici (così è scritto sui cartelli ad uso dei turisti). Insomma, prima dell’ambientalismo attuale che bada alla qualità dell’aria (e in seconda battuta a quella dell’acqua), nel mondo l’acqua era sinonimo di pulizia facoltativa, o di inevitabile infezione, tanto che oggi si rischia di dimenticarsene, nonostante il forte aumento di casi di epatite e peggio;. Eppure è raro trovare sui giornali articoli sull’igiene; piuttosto, il succitato Fulco Pratesi scrive spesso di non lavarsi e di usare gli sciacquoni solo una volta al giorno, arrivando a suggerire di riempirne a metà di mattoni i cassonetti per dimezzarne il flusso. Tuttavia nei TG del 27/5 si sono annunciate nuove leggi italiane a “tolleranza zero” verso chi inquini con scarichi domestici o, peggio, con perdite di combustibile le nostre preziose coste e spiagge.

RIPULIRE L’ACQUA
L’acqua da proteggere dall’inquinamento (o da “ripulire” dopo che sia stata inquinata), non è solo quella liquida, che si beve e che si usa per cucinare, lavarsi o pulire vetri e pavimenti e servizi igienici, ma anche quella dei suoi due altri stati fisici: solido (ghiaccio) e gassoso (vapore… acqueo). La forte stabilità chimica fa sì che sostanze estranee spezzino con difficoltà i legami della molecola d’acqua e restino il più delle volte nettamente separate. Questo già suggerisce almeno un modo per ripulire l’acqua: la sua “distillazione”, l’allontanamento del vapore dai residui e la successiva “condensazione” (cioè ritorno da gas a liquido) del vapore pulito in un ambiente (contenitore) non contaminante; ripetendo eventualmente più volte l’operazione perché certe impurità possono rimanere attaccate anche a molecole di vapore. In certe regioni della Terra dove il “ciclo dell’acqua” è più difficoltoso, per esempio in un’isola con rilievi troppo bassi, con drenaggi della pioggia troppo rapidi, con temperature troppo alte da impedire la formazione di ghiacciai, con precipitazioni piovose o nevose scarse, ma soprattutto con impossibilità di estrarla dal sottosuolo, dove esistono numerose le cosiddette “falde”, l‘acqua è scarsa; queste zone sono desertiche o destinate a diventarlo e il problema relativo all’acqua non è tanto l’inquinamento quanto la disponibilità o reperibilità; sarà a maggior ragione sempre necessario “ripulire” l’acqua estratta con vari mezzi. È evidente che quanto minore è l’acqua tanto minore è la diluizione dei suoi inquinanti e perciò tanto più grave, a causa della concentrazione, è l’effetto degli inquinanti sugli organismi che ne vengono a contatto; i problemi allora riguardano in questo caso piuttosto l’igiene in generale (batteri e virus) che la tossicità di sostanze solide o liquide immesse da attività antropiche. Per questo anche in tempi remoti era spesso sufficiente scaldare l’acqua, o, per sicurezza, bollirla (la maggioranza dei microorganismi infettanti muoiono già a 70-80°C, ma proliferano a 25-40°C) per poterla utilizzare a fini alimentari. Perché l’acqua sia veramente “potabile”, ossia non sia dannosa agli esseri viventi che la bevono, si usano oggi diversi complessi trattamenti che non sono alternativi uno rispetto all’altro, ma devono essere usati nella combinazione più adatta al tipo di impurità da eliminare e alle caratteristiche dell’acqua da ripulire (dolce o marina, di falda o di superficie, sorgiva o reflua, ecc.). Il più noto e usato è la “clorazione” perché lo ione Cloro è molto “aggressivo”, capace di uccidere microorganismi e di legarsi a ioni pesanti formando sali e precipitati; deve essere dosato con precisione perché non diventi dannoso a sua volta e conferisce all’acqua un sapore (e odore) sgradevole, che deve essere corretto. Altri trattamenti sono irraggiamento con raggi UV, passaggio su carbone attivo, filtraggio osmotico, ecc. Non essendo uno specialista, mi limito a insistere che il trattamento delle acque nei luoghi abitati non è affatto un problema banale e merita maggiore attenzione. La necessità del monitoraggio continuo dell’inquinamento idrico consente anche di misurare certe abitudini della popolazione, in particolare l’uso di medicinali e droghe: si sono così scoperti dati allarmanti che suggeriscono, ovviamente, di rintracciarne l’origine, di toglierli dall’acqua potabile, ma soprattutto di impedirne l’uso incontrollato.

“TSUNAMI ATOMICI” E RADIOATTIVITÀ DELL’ACQUA
Ciò che non si può “eliminare” chimicamente è la radioattività, sia dell’acqua, sia delle sostanze in essa disciolte. È necessario dunque un primo cenno (torneremo sull’argomento in modo più specifico) al famigerato “inquinamento radioattivo”, perché l’intero movimento ambientalista non è nato per l’assenza di fognature nel XIX secolo, quando l’urbanizzazione, insieme all’industrializzazione, presero a crescere a un ritmo irrefrenabile e conseguenze igienico sanitarie catastrofiche (colera, tifo, ecc.); l’apprensione per l’ambiente nasce in seguito al terrore suscitato nell’agosto 1945 dalle bombe americane su Hiroshima (bomba all’uranio) e Nagasaki (al plutonio), le quali si diceva avessero “inquinato” l’intero territorio e il sistema idrico giapponesi per centinaia di secoli (alle centinaia di migliaia di civili Giapponesi assassinati hanno pensato sempre in pochi, come del resto alle vittime dello tsunami di tre anni fa); come è evidente da qualunque foto scattata ai nostri giorni a Hiroshima (dopo 70 anni), la previsione era falsa. Un tempo le acque minerali reclamizzavano la propria “radioattività naturale”, ma ci si rese conto che era controproducente, visto il clima creatosi contro tutto ciò che era e che è radioattivo (fuorché, stupidamente, in medicina, vista la leggerezza con cui i pazienti esigono, e i medici acconsentono, di fare radiografie, TAC, scintigrafie, ecc.).  La radioattività proveniente da nuclei atomici (chiamata “alfa” o “beta” o “gamma”) e non da atomi eccitati (nel qual caso si chiama X), è sempre “naturale”, perché si evolve secondo una legge fisica dipendente dagli isotopi che la generano. I rarissimi isotopi radioattivi presenti nell’acqua sono quelli dei tre nuclei di quella molecola e quelli delle sostanze disciolte o in sospensione. In siti “normali” tali sostanze sono così rare che, sia intensa o meno, e duratura o meno, l’intensità della radiazione, la “dose” che colpirebbe un essere vivente nelle immediate vicinanze sarebbe trascurabile rispetto al “fondo naturale”, costituito dai soliti raggi cosmici, neutrini e altre sub particelle che vagano nel Sistema Solare, per lo più generate dal Sole stesso. Tali dosi sono così piccole da rientrare fra quelle che potrebbero avere perfino un effetto salubre. Altra questione è se l’acqua sia rimasta in prossimità di minerali radioattivi (quali uranio o torio, per esempio, di cui esistono notevoli giacimenti minerari) o di impianti nucleari che abbiano subìto un grave incidente, dove con “grave” si intende la fuoruscita di materiale che normalmente si trova nel nocciolo dove avviene la fissione; in questi casi l’acqua stessa potrebbe essere stata irradiata (da neutroni e raggi gamma), aumentando per questo le sue emissioni naturali, e le sostanze eventualmente disciolte potrebbero essere fortemente radioattive (nel caso peggiore anche tossiche). Ma si tenga conto che nel primo caso (miniere o sali disciolti) le quantità sono minime (in media 3-4 mg di uranio sono presenti in ogni metro cubo di acqua di mare, ben sotto la soglia definita “di rischio”), mentre nel secondo (incidente) la localizzazione e la messa in sicurezza della zona pericolosa (o l’evacuazione delle persone in pericolo) è immediata, come è avvenuto a Three Mile Island e a Fukushima, dove del resto la quantità di acqua contaminata a contatto dell’oceano è stata davvero trascurabile rispetto a una situazione di pericolo (e omettiamo l’incidente di Chernobyl in cui nessun elemento radioattivo ha raggiunto la falda acquifera). In ogni caso gli isotopi O e H di acqua irradiata scompaiono in pochi minuti e l’attenzione deve concentrarsi sugli isotopi pesanti radioattivi e a volte tossici che si originano nel nocciolo durante il funzionamento normale. Da tempo si usa il metodo del doppio circuito fluido: quello primario che contiene, raffredda e modera il materiale fissile, e quello secondario, che non viene mai in contatto col nocciolo ed è separato dal primario mediante robusti schermi; il suo liquido diventa vapore, che aziona le turbine e finisce col riversarsi e disperdersi in correnti fluviali o oceaniche, senza essere più “sporco” di prima che evaporasse. L’incidente di Fukushima ha evidenziato la possibilità che in qualche parte i circuiti primari potessero cedere materiale e non solo calore a quelli secondari, scaricando in acqua materiale radioattivo anche a turbine ferme; la proposta più recente della Tepco, responsabile dell’impianto Giapponese, è di creare una barriera fra acqua contaminata e Oceano congelando rapidamente il terreno attorno all’impianto in modo che liquido contaminato non raggiunga mai il mare aperto. Altre soluzioni sono allo studio, sperando che nessuna si presti a distrazioni di progettisti e operatori, visto che proprio a causa delle loro disattenzioni si è verificato il surriscaldamento del nocciolo, rimasto senza raffreddamento dopo che l’ondata dello tsunami ha bloccato le pompe elettriche che avrebbero dovuto assicurare il flusso d’acqua al reattore, disattivato, ma ancora caldissimo e senza possibilità di smaltimento del calore.

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