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ARTOM, PARTIGIANO SENZA RETORICA

di Sergio Luzzatto – Provate a immaginare un partigiano che tiene un diario. Che sfida le regole più ovvie della prudenza militare, oltreché gli imperativi più cogenti di un’esistenza randagia, per affidare alla pagina scritta il racconto in presa diretta della “vita di un bandito” nelle valli piemontesi, dal novembre 1943 al febbraio ’44. E provate a immaginare che quel partigiano, anziché idealizzare la sua condizione di combattente per la libertà, decida di non sottacere nulla, ma proprio nulla della Resistenza vista dall’interno: i calcoli, le volgarità, i fanatismi, le violenze. Provate a immaginare tutto questo, e avrete un documento storico straordinario, che esiste davvero e che è stato ripubblicato (per la prima volta in versione integrale) dalle edizioni Bollati Boringhieri: è il Diario partigiano di Emanuele Artom. Rampollo di una famiglia della borghesia ebraica torinese, colto e appassionato quanto timido e maldestro, Artom aveva ventotto anni quando aderì al Partito d’Azione, subito dopo l’8 settembre ’43, e raggiunse le bande dei “ribelli” tra la Val Pellice e la Val Germanasca. Denunciato da una spia e catturato dai nazifascisti in un rastrellamento del 26 marzo ’44, fu riconosciuto quale commissario politico del Partito d’Azione, e inoltre quale ebreo. Venne più volte torturato. Fu anche fotografato a cavallo di un asino, con un ridicolo cappello sulla testa e una scopa sotto il braccio, il viso tumefatto: “bandito ebreo catturato”, recitava la didascalia della foto su un periodico collaborazionista. Trasferito alle Carceri Nuove di Torino, morì il 7 aprile, dopo avere patito ogni genere di sevizie. Sepolto in un bosco presso Stupinigi, il suo corpo non è stato mai ritrovato. Di mestiere, Artom voleva fare lo storico. E appunto per storicismo decise di redigere un diario resistenziale (ma l’aveva cominciato fin dal 1940), trasmettendone fortunosamente le pagine ai genitori sfollati e nascosti: “In futuro sarà una interessante testimonianza, perché credo che pochi siano i partigiani che lo tengono con tanta assiduità e, d’altra parte, per ovvie ragioni si scrivono poche lettere confuse e prive di notizie politiche”. Un diario dove l’intellettuale un po’ grafomane si sforza di registrare ad uno ad uno i risvolti quotidiani della vita della banda, e per farlo deve misurarsi prima ancora che con la politica con l’antropologia di un microcosmo composto di uomini giovani, a volte ribaldi, spesso zotici, non di rado allupati. Il borghese Artom cela a malapena il suo disprezzo per i compagni d’arme di origini operaie, segnatamente per i capi comunisti, “attivi, pratici, cordiali, ma fanatici e ignorantissimi”. Partigiani che domandano se Omero abbia scritto in greco antico o moderno, che confondono Croce con Lombroso, che sputano sul fieno dove devono dormire e scoreggiano fragorosamente prima di addormentarsi… “Come potremo affidare a questa gente il governo dell’Italia?”. Severo come un maestro elementare d’altri tempi, Artom registra nel diario anche la scena di “quel vecchio porco di Nicola”, che “faceva vedere ai ragazzi delle fotografie oscene”. Ma Emanuele stesso è un giovane uomo che la vita in montagna ha separato dalle donne. Capita dunque pure a lui di guardare con interesse “due fotografie di R. seminuda” (è l’amante del suo migliore amico), e gli capita di sognare quando condivide con due compagni “un immenso letto con 3 posti” il letto a tre piazze dell’Orlando furioso dove giacevano Astolfo, Fiammetta e Iocondo: “Ma purtroppo Fiammetta non c’è”. Nel lucido saggio pubblicato in appendice al Diario partigiano, lo storico Guri Schwarz sottolinea come il testo non manchi di implicazioni propriamente politiche. Da un lato, il diario di Artom documenta il disagio incontrato dall’intellighenzia azionista di città nel comunicare con i ribelli di periferia o di campagna. Troppo colti e smagati, troppo snob, i partigiani-professori non sapevano parlare al cuore di manovali e di braccianti che si esprimevano quasi soltanto in dialetto, e che erano saliti in montagna da renitenti alla leva di Salò piuttosto che da resistenti: più facile che gli “apolitici” si lasciassero incantare, semmai, dal ferreo dogmatismo comunista. D’altra parte, il diario documenta le perplessità di certi capi partigiani nell’aderire ai “metodi fascisti” di combattimento della guerra civile. In particolare, Emanuele Artom fu tra quanti (pochi) criticarono la prassi di uccidere i nemici tedeschi o saloini dopo averli fatti prigionieri. Avrebbe preferito graziarli, a costo di subirne un danno militare: “Almeno davanti alla popolazione e alla storia si sarebbero rese note le differenze fra i due metodi”. Parole come queste bastano da sole a suggerire la ricchezza del testo di Artom. Ma le parole che maggiormente colpiscono il lettore sono quelle con cui l’autore commenta due ordinari episodi di vita ai margini della banda: un partigiano ubriaco che litiga con un carabiniere e viene incarcerato per alcune ore, un altro partigiano che mette incinta una ragazza forse usandole violenza. “Bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova rettorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli uomini sono uomini”. Altrettante parole che dovrebbero imparare a memoria i soloni d’oggidì, quando stucchevolmente ci spiegano come la Resistenza vada “smitizzata” e come la guerra partigiana sia un evento da “sfatare”. Il diario di Artom dimostra magnificamente come il discorso stesso dei resistenti, almeno nelle sue espressioni più alte, contenesse l’antidoto del mito. Soprattutto, il Diario partigiano dimostra come lo scoprire i limiti politici e morali della Resistenza non equivalga affatto a disconoscerne l’immenso merito storico. Ancora con parole di Emanuele Artom, le migliori possibili: “Può essere che in futuro questo mio spregiudicato e pessimistico diario possa fare cattiva impressione: si dica che io, arrampicandomi per la montagna, mi fermavo a osservare sterpi e sassi i brutti episodi son numerosi e non guardavo la vetta o il paesaggio. Errore, errore. Se non vedessi vetta o paesaggio, non farei la dura salita, ma per timore di retorica preferisco tacere gli alti ideali”.

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