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IL TEATRO BONIFICATO È SOLO UNO SCATOLONE “SORDO” DI CEMENTO ARMATO

Alessandria (Gimmy Barco) – Per chi ancora non ne fosse a conoscenza la capitale della Mandrognìa, dopo ben 5 anni, ha di nuovo il suo teatro Comunale; o meglio, si può di nuovo entrare in quello scatolone di cemento armato una volta adibito a “ fabbrica della cultura “ senza rischiare il cancro ai polmoni. La cultura cittadina è quindi  salva. Un po’ di storia:  Alessandria, tra l’800 ed il ‘900,  era la città dei militari e del proto terziario. Quindi sale da ballo, postriboli, cafè chantant, moltissimi bar, locali pubblici e più d’un teatro: una sorta di Paese di Bengodi che drenava le paghe di migliaia di ufficiali, sottufficiali, soldati e le risorse di tutto quel mondo che ruota intorno all’esercito in transito fra Tanaro e Bormida. Nella seconda metà del secolo scorso la cultura “marxista da operetta” di stanza qui da noi, con l’appoggio involontario della Legge Merlin, aveva deciso che, di tutte quelle cose, solo il teatro era utile. Quindi, abbattuto il vecchio stabile stile liberty che ospitava il Teatro Marini, negli anni sessanta del secolo scorso i tecnici del Comune progettavano il nuovo Teatro Comunale: nel cuore della città, ai margini dei giardini pubblici, vicino alla Stazione ferroviaria, con vista su Piazza Garibaldi, una delle più armoniche piazze italiane. Senza scomodare i grandi archistar i progettisti locali hanno avuto coraggio e fantasia immaginando il nuovo spazio come il trionfo del cemento “faccia a vista”, con simulacri di canne da organo che caratterizzano tutta la struttura, invero non squisitamente aggraziata. Anche allora i soldi a disposizione non erano moltissimi e, visto che a qualcosa si doveva rinunciare, si decise di fare a meno della cosiddetta “conchiglia”, un accessorio fondamentale, normalmente costruito in legno da specialisti ad hoc, che consente ad una sala teatrale di quel tipo, pure la più grande, di offrire un’acustica perfetta a tutti gli spettatori. Ma l’evidente l’obiettivo di quelle giunte di sinistra non era quello di offrire un’acustica da riferimento (tanto è vero che quella benedetta conchiglia collocata dietro il palcoscenico non c’è mai stata) e l’andamento delle onde sonore della Sala grande è più simile a quello del capannone industriale ex Bolognini che non ad un teatro che si rispetti. La logica infatti che ha fin qui governato l’utilizzo di questa struttura è stata diversa, soprattutto quando PSI, leader  fondamentale di quelle giunte, negli anni ’70 ha deciso di delegare in tutto e per tutto al PCI locale, partner ufficiale della macchina del potere cittadino, la gestione del sito, riservandosi qualche vantaggino nelle assunzioni del personale con le funzioni più umili, al punto che i dirigenti socialisti del tempo avevano soprannominato il teatro comunale il  “Bolshoj”, vanto imperituro della cultura sovietica e sovietizzante. Al punto che per decenni ha svolto le funzioni di direttrice di sala un elemento di spicco dell’Associazione Italia- Urss. Tuttavia la sua gestione appariva troppo onerosa e nel 1995, quando l’allora sindaco Francesca Calvo sposò l’idea di Beppe Mirabelli (che di destra certo non era), ATA, la municipalizzata che gestiva il Comunale, passava in Aspal, struttura paracomunale che si occupava di mense e farmacie, attività certo meno nobili ma che garantivano flussi importanti di denaro fresco giusto per pareggiare le voragini provocate dell’attività teatrale in “rosso pompeiano” sotto tutti i punti di vista. In realtà il problema autentico di un simile drenaggio di denaro pubblico, quale era l’Azienda Teatrale Alessandrina dagli anni ’70 in poi, non era solo quello di dove andare a reperire risorse nelle pieghe del bilancio municipale, bensì di verificare quanto poco e male il “progetto culturale” sovietico concepito dai comunisti mandrogni di allora producesse un ritorno apprezzabile sui processi culturali cittadini. Certamente il Teatro era a disposizione per un numero spropositato di iniziative ed associazioni fini a se stesse, che avevano in comune solo di dare visibilità e malcelato senso di appartenenza alla solita parte politica che se ne era arrogato il predominio. Di lì, fra disastri annunciati ed iniziative avventurose e fallimentari, tutte peraltro benevolmente benedette da Fondazioni e Regione, si arriva a sei anni orsono. A quel tempo una serie di ignoranti e pasticcioni affida un delicato lavoro di bonifica della struttura a chi sapeva a mala pena di derattizzazione, ufficialmente con l’intento di risparmiare il più possibile sul costo dei lavori. Una domanda però ce la dobbiamo pur porre, visto che il prezzo di cotanta faciloneria è stato pagato pure da una ventina di dipendenti del Teatro stesso: alla luce del successivo dissesto e della patetica fuga dei soci sodali del Comune di Alessandria in questa disgraziata avventura teatrale, quale poteva essere la qualità ed il profilo della gestione e dell’attività se non ci fosse stato lo stop forzato imposto dall’Arpa per le note ragioni? A chi mi legge lascio la risposta. Adesso grande festa perché l’interno dello scatolone di cemento “faccia a vista” è stato bonificato. Peccato che per dare funzionalità sostenibile alla struttura manchino sette milioncini di euro (euro più, euro meno) per trasformare una scatola in un teatro decente, funzionante e di buona acustica (quindi non “sordo” come è sempre stato), soldi che non ci sono. Un progetto industriale credibile in grado di coniugare la cultura alessandrina con l’aridità dei numeri ( il classico banale rapporto tra costi e ricavi) non c’è e non si sa chi sia in grado di farlo. Non si sa quali siano le persone e le professionalità idonee a portare avanti l’eventuale progetto (perché, come ripeteva Nenni, le idee camminano con le gambe degli uomini) immaginato dai nostri amministratori pubblici e che non tenga più conto dell’Associazione Italia-Urss. Tecnici che possono più essere, visti i risultati catastrofici del passato, i soliti noti amici degli amici. Il resto è solo cultura sì, ma quella vuota dell’annuncio oppure  sterile retorica di chi non si vuole arrendere all’evidenza che il ‘900 è finito, anche per i trinariciuti.

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