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A CINQUE ANNI DA FUKUSHIMA RIFLETTIAMO CON LO SGUARDO RIVOLTO AL FUTURO

di Davide Giusti (ENEA – Università di Bologna) – Il foglio è bianco: la ricorrenza del quinquennio dall’incidente di Fukushima e del trentennale da quello di Chernobyl rimandano indubbiamente alla necessità di una prima riflessione in prospettiva storica, una di quelle che solo il tempo trascorso consente ed impone.
Non si tratta di uno sforzo banale: su entrambi questi temi sono stati versati fiumi di inchiostro in questi anni. Spesso inchiostro speso male. Chi scrive curò cinque anni orsono un numero speciale d’una bella rivista di divulgazione scientifica dedicato proprio al tentativo di effettuare un bilancio essenziale ed obiettivo delle conseguenze di Chernobyl.
Vedemmo, coi colleghi ucraini, ciò che oggi molti sanno già, e cioè che la cosiddetta Zona di Esclusione di Chernobyl (CEZ) è un’area candidata ad avere un importante ruolo per la vita ed il ripopolamento della fauna selvatica: constatazione che ci fu proposta da un’autorità, un radioecologo di fama mondiale. Rimanemmo anche incantati dalla taciturna bellezza dei luoghi; misurammo la radioattività al suolo, verificandola mediamente assai inferiore a quella riscontrabile a Roma e nel Lazio.
Dalla nostra visita e dalle ricerche che avevamo fatto per avere un’idea comprensiva di ciò in cui ci saremmo immersi, balzò evidente la sostanziale fondatezza dei documenti prodotti dagli organismi internazionali e la totale – vorrei dire insolente – infondatezza di quanto proposto dalle organizzazioni che traggono alimento dalla paura.
Poi vi fu Fukushima: un enorme cataclisma naturale, che provocò morti e dispersi a decine di migliaia. I reattori della generazione costruita a quel tempo in Europa erano a prova di diluvio universale, ma quelli progettati negli anni cinquanta no. È vero, sarebbe bastato un adeguamento delle protezioni degli edifici dei generatori ausiliari che non ci fu. Oggi tutti gli addetti ai lavori sanno che, dal punto di vista della sicurezza nucleare, il valore più probabile di vittime causato dal danneggiamento di quegli impianti nucleari è zero.
Zero contro ventimila, moltissimi  dei quali avvenuti in luoghi (ma certo anche a causa di impianti non nucleari) non altrettanto sicuri. Se una tragica partita finisce zero contro ventimila, e tutta la stampa europea occidentale associa ancora oggi a quello zero il disastro, allora qualche domanda te la devi fare.
Il pesce pescato in quei giorni al largo delle coste di Fukushima sarebbe stato commercializzabile secondo i più stringenti limiti occidentali; quelle che ancora oggi sono indicate come soglie di attenzione di ratei di dose in quei luoghi sono sensibilmente inferiori a quelle che si assorbono nei comuni viaggi in aereo.
Da tecnico, fui correlatore di una bella tesi di laurea in scienze della comunicazione. Ci accorgemmo d’una cosa a prima vista sorprendente: anche i giornali italiani favorevolmente orientati alla ripresa di un programma nucleare in Italia non rifuggivano dalle linee narrative volte alla drammatizzazione esasperata, alla presentazione di immagini accattivanti e virate al blu, ad eliminare i chiaroscuri, ai toni epici e tragici. Ma solo in relazione alla componente nucleare. Anzi, il succedersi retorico delle personalizzazioni, dello spostamento continuo dei piani narrativi della vicenda, rimandanti a possibili oscure, e tuttavia inespresse, macchinazioni a fronte dell’esodo d’una popolazione dipinta come eroica e sofferente, tutto questo costituiva la cifra vera della narrazione. 
Che resta di tutto ciò nei fatti? Poco o nulla.
Resta, quasi ineliminabile da un approccio razionale, uno strascico di alterazione delle coscienze che è divenuto una cifra della crisi nazionale.
Nel mondo assistiamo invece ad un’importante serie di nuove realizzazioni, ad affrancare dall’atavica inedia di energia le popolazioni più numerose e povere del Pianeta che si affacciano oggi finalmente a condizioni di vita vicine alla modernità. Cina, India.
L’efficienza dei reattori è dovunque in aumento: fattori di carico da record, obiettivi di bruciamento del combustibile che in passato sarebbero stati relegati alle realizzazioni del futuro, oggi parzialmente ascrivibili alla quarta generazione, estensioni significative della vita operativa degli impianti ed, oltre a ciò, fermento di nuove idee progettuali, di cui non è possibile dare conto compiuto in poche righe.
Reattori coreani, progettati anche in collaborazione con le intelligenze del MIT, contendono oggi la scena della più blasonata filiera dell’occidente agli omologhi europei e nippo-americani. Lo sviluppo accelerato della reattoristica russa propone i maggiori VVER mai realizzati oltre all’allacciamento in rete del BN800 che a breve diverrà il campione della filiera degli autofertilizzanti a sodio per energia immessa in rete, e rimanda esplicitamente al fratello maggiore BN1200 cui funge da test.
I cinesi, gli argentini, propongono reattori compatti, in cui l’intero circuito di refrigerazione è integrato nel vessel di contenimento primario. Un interesse grande da parte degli investitori è nella direzione dei piccoli reattori modulari (Small Modular Reactors, SMR). Sotto questa categoria vanno prototipi industriali e reattori per usi speciali in un amplissimo spettro di varietà.
Si tratta d’un panorama di sviluppo paragonabile solo a quello degli albori dell’era nucleare. In Europa, anche con il decisivo coinvolgimento degli enti di ricerca e delle industrie (nel nostro caso ENEA ed Ansaldo Nucleare) sono in fase di sviluppo soluzioni originali, per cui l’Italia si è posta a capofila grazie alla qualità delle sue idee e capacità. Il Governo italiano oggi mostra un dinamismo francamente differente rispetto alle esperienze immediatamente precedenti. Bene: ci sono importanti questioni, fattori di isolamento del nostro sistema rispetto ai vicini che richiedono l’abbandono dei populismi e delle acquiescenze alle piazze virtuali: l’Italia deve poter tornare a guardare con fiducia e progetti al futuro, nel solco dei grandi italiani che, spesso pagando di persona, ne hanno fatto un Paese moderno.
È il futuro che ce lo chiede.

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