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LA PICCOLA GIUSEPPINA, PICCHIATA, STUPRATA E UCCISA DAI PARTIGIANI COMUNISTI; LA TESTIMONIANZA DI GIAMPAOLO PANSA SULLE ATROCITÀ PARTIGIANE ROSSE

di Gianalfredo Ruggiero – Giuseppina Ghersi era una bambina di appena 13 anni quando fu picchiata, stuprata e uccisa dai partigiani con l’accusa di essere al servizio del regime fascista. Studentessa delle magistrali alla “Rossello” di Savona, la mattina del 25 aprile 1945 fu sequestrata da tre partigiani e portata nei locali della Scuola Media “Guido Bono” a Legino, adibito a Campo di Concentramento per i fascisti. Le cosparsero la testa di vernice rossa e le vergarono la emme di Mussolini sulla fronte per essere poi esibita in pubblico come un trofeo di caccia. Fu pestata a sangue e violentata. Il 30 aprile fu uccisa con un colpo di pistola alla nuca e il suo corpo gettato, insieme ad altri, su un cumulo di cadaveri davanti al cimitero di Zinola. Al riconoscimento della piccola partecipa Stelvio Murialdo il quale dà una testimonianza agghiacciante: “Erano terribili le condizioni in cui l’avevano ridotta, evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane età. Una mano pietosa aveva steso su di lei una sudicia coperta grigia che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia. La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei, quella sconosciuta ragazza no, l’orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno. Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta, con un braccio irrigidito verso l’alto, come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano”. Giampaola Pansa, nel suo libro “Bella Ciao” dedica un capitolo ad un’altra triste vicenda. Gli stupri di Brogli: “La retorica resistenzialista e i libri che ne derivano hanno sempre ignorato l’esistenza del Campo di Brogli… un lager nella 6° Zona ligure, dove tra l’estate e l’autunno 1944 furono rinchiusi molti prigionieri fascisti. La loro sorte era segnata: venivano torturati e poi uccisi (…) erano tutti uomini, a parte due donne. Una era un’ostetrica genovese, fra i trenta e i quarant’anni, bionda e con la testa rapata in modo selvaggio, coperta di croste rossastre. In seguito fu poi violentata e fucilata. L’altra donna era molto più giovane e nessuno sapeva che fine avesse fatto.”
In seguito Gianpaolo Pansa rintracciò la donna, Lucia R., e ne raccolse la testimonianza: “Nel 1944 aveva 19 anni e frequentava la terza liceo classico a Genova. Una domenica di settembre era andata a visitare uno zio ammalato, fascista delle ultime file, commissario prefettizio di un piccolo comune della Valle Scrivia.
Quel giorno alla porta dello zio bussarono tre sconosciuti, partigiani arrivati per ucciderlo. Ma lui non c’era perché la sera prima era stato ricoverato all’ospedale di Novi Ligure.
Il terzetto trovò soltanto Lucia, la prese e la portò a Brogli (…) ‘Arrivai a Brogli in preda alla disperazione. Il capo del lager, il famoso Walter, mi accusò di essere un’ausiliaria fascista, per di più parente di un podestà repubblichino (…) si divertiva a spaventarmi, i suoi uomini assistevano ridendo e insultandomi. Ma il peggio doveva ancora arrivare e successe la prima sera. Mentre tutti i prigionieri venivano rinchiusi nel casone, mi portarono in una casupola vicina al comando del campo. Ero una ragazza illibata e quella sera persi la verginità. Il primo a violentarmi fu Walter, che poi mi passò a due russi. Mi presero con una brutalità bestiale, perché ero una troia fascista, così dicevano. Quando mi riportarono nel casone dei prigionieri, sanguinavo, avevo la faccia nera per le botte ricevute (…) pensavo che dopo essersi sfogati, Walter e i suoi uomini mi avrebbero lasciato in pace. Ma il giorno successivo mi resi conto che ero considerata una preda da stuprare a loro piacimento. Mi facevano uscire tutti i giorni dal casone e mi usavano come fossi una prostituta al soldo della banda di Brogli (…) La mia tortura durò tutto il mese di ottobre (…) a salvarmi fu l’arrivo a Brogli di un commissario politico anziano (…) Mi sono accorsi anni per liberarmi dell’orrore di Brogli”.
In un altro capitolo del suo libro, Giampaola Pansa, descrive la vicenda di Giuseppe Ugazi e delle sue due figlie: “Nell’agosto 1944, a Galliate viveva Giuseppe Ugazio, 43 anni, segretario del fascio repubblicano di quel comune (…). Ugazio viveva con due figlie. Cornelia, 21 anni studiava Medicina all’Università di Torino (…), la più piccola, Mirella detta Mirka, 13 anni. Verso le nove di sera del 28 agosto si presenta alla trattoria San Carlo, dove se ne stava seduto con un paio di amici, una pattuglia di militi della repubblica e invitano l’Ugazio a seguirli insieme alle figlie perché si teme un attacco dei ribelli. Il segretario del fascio e le due ragazze salgono sull’automobile dei militi e soltanto all’ora scoprono di essere caduti nelle mani dei partigiani garibaldini travestiti da fascisti. Li conducono attraverso i campi sino a una cascina isolata, la Negrina, qui li aspettano una ventina di ribelli che hanno già occupato il cascinale. I partigiani mangiano e bevono, sotto lo sguardo atterrito dei tre ostaggi. Il padre di Cornelia e Mirka spera ancora di salvare almeno le figlie, poiché tra i ribelli ha riconosciuto un giovane di Galliate. Poi si rende conto di non avere via di scampo. Viene spinto in un boschetto vicino al podere, legato a un albero e torturato sotto gli occhi delle ragazze. La sua vita sta per concludersi. I partigiani lo finiscono spaccandogli il cranio con il calcio dei moschetti. Subito dopo tocca alle figlie. Sia Cornelia che la piccola Mirka sono stuprate. I ribelli se le passano di mano per l’intera notte. È quasi l’alba del 29 agosto quando le ragazze non danno più segni di vita. La banda trascina i corpi nel boschetto, accanto al cadavere del padre. Gli stupratori scavano una fossa poco profonda, una trentina di centimetri, non di più. Al contatto con il freddo del terreno, Cornelia e Mirka si riprendono. Allora i partigiani fracassano la testa della ragazza più grande con i moschetti e soffocano Mirka, schiacciandole il collo con uno scarpone. Poi se ne vanno poco dopo l’alba. E riprendono a combattere per la rivoluzione comunista”.
Giampaolo Pansa riporta il numero di 2.365 donne uccise, spesso prima stuprate dai partigiani, di cui si conosce il nome e la vicenda. A cui bisogna aggiungere le centinaia di donne violentate che sono riuscite a sfuggire alla morte e che per un comprensibile senso di pudore hanno taciuto. E quelle picchiate, rapate a zero ed esibite come trofei per la sola colpa di essere fidanzate di soldati fascisti.
Un’altra donna vittima della barbarie partigiana fu Luisa Ferida, una delle più rappresentative attrici del cinema italiano nel decennio 1935-1945. A soli 31 anni ed incinta di un bambino, fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme al marito Osvaldo Valenti.
Quando il 25 Aprile i partigiani riconosceranno le nefandezze della loro parte allora, solo allora, si potrà parlare di pacificazione nazionale e voltare finalmente pagina.

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