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ECCO PERCHÉ IL DIO DEGLI EBREI NON È QUELLO DEI CRISTIANI

di Andrea Guenna (prima puntata – tratto dal mio nuovo libro sui Templari che uscirà entro il 2016) – È possibile che la nostra vita sia come una continua oscillazione fra la comunione col sacro e la coscienza di sé. Un’oscillazione fra i due estremi, il trascendente e l’immanente, che produce un malessere dovuto al contrasto tra le fasi di esaltazione che conducono al misticismo e quelle di sconforto che portano all’individualismo più cupo, alla negazione di Dio, all’egoismo ed al materialismo, facendo dell’uomo dio di se stesso. Si tratta d’una tensione dovuta al pendolo della vita appeso in un punto che è, simbolicamente, l’Inizio, che si muove grazie alla spinta data dall’uomo continuamente dibattuto tra il sacro e il profano. Un pendolo che, a volte, può anche soffermarsi su di noi, soprattutto quando si prega e ci si mette in contatto col Padre. Un’oscillazione che, come vedremo, non è solo lineare ma può essere anche circolare, che è centripeta se tende all’infinitamente piccolo, centrifuga se tende all’infinitamente grande.
Il concetto del pendolo è noto a Blaise Pascal per il quale la conoscenza è limitata sempre dai due abissi dell’infinito e del nulla, dai quali nessun uomo (e quindi nessuna scienza) può prescindere. Il pensiero è finito, e chi ha indagato sulla sua natura ha pensato di poterne scoprire i principi primi e ultimi (cioè il tutto) che però si trovano proprio al “limite” di tali abissi infiniti.
Pascal fa una differenza sostanziale nel campo della conoscenza, che divide nelle due forme essenziali derivanti dal suo “spirito di finezza” e dallo “spirito di geometria” cartesiano, il metodo scientifico che parte dalla constatazione del fenomeno analizzato singolarmente, mentre lo “spirito di finezza” parte dalla conoscenza esistenziale dell’uomo, dei moti della sua anima, dei principi che governano la sua sfera spirituale, da una conoscenza sincretistica che si rivolge a principi di “uso comune” riuscendo a comprenderne insieme l’interezza e la complessità.
Ecco perché, per Pascal, ogni scienza che non consideri l’uomo è inutile: la scienza che fa a meno del cuore per comprendere i temi esistenziali non raggiunge lo scopo in quanto “capire col cuore non è un fatto romantico o irrazionale, ma è il centro pulsante dell’intimo umano, lo strumento dello spirito di finezza” per cui “anche il cuore ha le sua ragioni che la ragione non conosce affatto”.
Pascal fa anche notare che il tutto avviene nell’ambito del possibile (ciò che può avvenire, come nel nostro caso, per il raggiungimento dell’assoluto attraverso il relativo) proprio perché è qui che noi possiamo effettuare le nostre scelte (il libero arbitrio), per cui è interessante notare come si compia un ragionamento, non su quello che avverrà necessariamente, ma su quello che potrebbe avvenire a condizione che…, concetto che lo stesso Pascal introduce in ambito matematico.
Ad ogni istante della nostra vita compiamo delle scelte e facciamo delle scommesse. Ci poniamo sempre davanti ad un bivio come il pendolo che oscilla fra due opzioni, e dobbiamo scegliere quale strada prendere. Ciò mentre Dio sa esattamente cosa ci succederà in ogni caso, ma ci lascia liberi di sbagliare proprio per metterci alla prova. Ad ogni decisione corrisponde un risultato finale che può essere negativo o positivo. Anche qui c’è il pendolo che oscilla e dobbiamo stare da una parte o dall’altra, tertium non datur, scommettendo proprio come Dio scommette su di noi.
Ma se Dio scommette su di noi, anche noi, secondo Pascal, scommettiamo su di Lui, per cui non è importante dimostrare che Dio esiste, ma decidere se valga o non valga la pena puntare sulla Sua esistenza, cioè compiere un atto di fede su cui impostare qualsiasi ragionamento che segua lo spirito di finezza. È un po’ come quando lanciamo la moneta e scommettiamo su testa o croce spinti dal fatto che, stavolta, c’è un premio in palio talmente grande per cui, in caso di vittoria, potremo cambiare la nostra vita.
Pascal punta sull‘esistenza di Dio, mettendo da una parte Lui e dall’altra il mondo. Non ci deve peraltro interessare la sua esistenza che è indimostrabile, ma la scommessa, per cui, in caso di vittoria si vince una realtà infinita, una felicità infinita, la beatitudine, se Dio invece non dovesse esistere, si perderebbe il nulla ma resterebbe comunque l’immanente (il mondo) che nessuno ci può togliere fino alla nostra morte.
Scrive il grande pensatore francese: “Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste”. Anche qui il nostro pendolo oscilla fra due opzioni, ma in una non c’è niente da perdere e la scommessa su Dio è quindi a senso unico perché si vince sempre.
Non si tratta di un gioco ma di un atto di fede, d’una puntata che ripetiamo in ogni istante della nostra vita. È l’Amore invocato da Gesù Cristo che, come nell’oscillazione di quel pendolo tra il trascendente e l’immanente, si contrappone all’odio in una continua instabilità che fa di noi una volta angeli e l’altra diavoli.
Ma la vera domanda è: per scommettere, cioè per cogliere il sacro, occorre più cuore o più ragione?
Diciamo che per capire le religioni, che sono fatte di regole, occorre soprattutto la ragione, mentre per fare propria una fede serve il cuore. Per questo motivo cerchiamo di capire attraverso la ragione ciò che è stato detto e scritto prima di Cristo quando tutte le scuole gnostiche insegnavano che l’universo ha avuto inizio da un dio originario, che può essere il Logos giovanneo (All’inizio era il Verbo…) il Primo Eone che emanò spontaneamente altri Eoni, che sono positivi e negativi, in una sequenza che per i cristiani si interromperebbe con la nascita di Gesù in quanto “generato non creato”, proprio perché il Logos, il Principio, il Dio Vero e Onnipotente, l’Uno, si incarnò in Cristo che ci indicò la via perduta che porta alla buona gnosi ed al ritorno al pleroma, salvandoci dal Demiurgo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Giovanni: 1; 14).
Secondo ragione invece possiamo dire che Dio è venuto sulla Terra per rifare l’uomo che era stato fatto male perché cattivo, vendicativo, egoista, afflitto da un grave difetto di fabbricazione, ovvero un “difetto d’origine” a causa di chi l’ha fabbricato.
Si tratterebbe quindi d’un uomo non creato da Dio, ma per mezzo di Dio e fabbricato da altri.
Leggendo il Vecchio Testamento si capisce che a fare l’uomo è stato un demiurgo appartenente al gruppo degli Elohim che sono anche i Prìncipi della materia quindi dell’imperfezione come avevano teorizzato i Catari che distinguevano tra la materia (il male) e lo spirito (il bene). E proprio leggendo il Vecchio Testamento appare evidente che siamo stati fabbricati (male) da Yahweh e non creati da Dio l’Onnipotente. Il verbo ebraico bara col quale si definisce impropriamente la creazione non significa infatti creare ma fabbricare in quanto il concetto di creazione tra gli ebrei non esiste e quindi non può essere espresso. Ciò è chiaro in molti passi del Vecchio Testamento dove si legge il termine bara ripetuto per ricordare l’atto attribuito agli Elohim (Gen 1,1; 1,27; 1,21. Dt 4,32. Eccle 12,1. Michea 2,10. Sal 89,13.48; 104,30; 148,5. Is 40,28; 42,5; 45,7-8; 45,12; 65,17-18. Ez 28,13-15).
Una prima prova del fatto che quella di Yahweh sia stata una fabbricazione e non una creazione di tutto ciò che esiste, compresa la produzione dell’adam (l’uomo), ci viene da una constatazione lapalissiana, in quanto la presunta creazione, leggendo il Vecchio Testamento, ha richiesto tempi lunghi e s’è svolta non come atto unico ma con una successione di azioni e di gesti che ha comportato notevole fatica e molto tempo, propri di chi lavora sodo, tali per cui, alla fine, chi ha lavorato ha dovuto riposarsi, e lo ha fatto nel giorno che ha chiamato Sabato da Shabbat (Esodo; 20-10). Altro che creazione dell’Onnipotente che in un attimo avrebbe potuto far sorgere dal nulla ciò che voleva, per di più senza affaticarsi e senza avvertire il bisogno di riposarsi.
Nel Vecchio Testamento Yahweh è descritto come un essere in carne ed ossa che dimorava insieme agli adam (sumeri-ebrei), prima nell’Eden, poi nel deserto durante la fuga dall’Egitto e poi nel Tempio costruito da Salomone. Addirittura, nel Vecchio Testamento si legge che  “il dio degli ebrei” era vivo e mangiava tutti i giorni, pretendendo che fossero i sacerdoti, cioè i suoi camerieri, a toccare il cibo che gli portavano.
E lo accudivano (segue).

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