Press "Enter" to skip to content

La metodologia della ricerca scientifica e tecnologica

Nonostante le priorità della Ricerca siano fortemente condizionate in ogni Paese dalla Politica, dalle lobby commerciali e dalla Finanza, qualche cosa di utile nella ricerca scientifica e tecnologica si è riusciti e si riesce a realizzare un po’ ovunque, a volte dove meno ce lo si aspetta, con l’aiuto della fortuna e del caso, come avviene da che mondo è mondo. Perfino l’alchimia, che per secoli e secoli (neanche Newton la disdegnava) è stata ciò che oggi si chiamerebbe “ricerca avanzata”, ha portato casualmente alla scoperta di alcuni prodotti, o “elementi”, anche se ha mancato il suo obbiettivo “istituzionale”, ma superstizioso: trasformare in oro puro, per mezzo dell’inesistente “pietra filosofale”, alcuni materiali ordinari e di impiego comune, come ferro o rame. Solo la fisica atomica moderna ha indicato alcuni procedimenti teoricamente e ormai anche sperimentalmente validi per la trasformazione di qualunque materiale in qualunque altro, ma è ben lontana dalla definizione di un metodo pratico ed economico per fabbricare l’oro dalla spazzatura. Tuttavia l’elemento chiave per condurre una ricerca scientifica, in qualunque campo, sia esso fisico o medico (mi si permetta di escludere i campi umanistico, filosofico e simili), è una solida metodologia, che eviti situazioni imbarazzanti come quella della scoperta, da parte del gruppo di Fermi alla fine degli anni ’30, della fissione nucleare per mezzo di neutroni lenti: la scoperta, che è valsa tuttavia allo scienziato italiano il Nobel per la Fisica, è nata dai suoi tentativi sistematici di aggiungere neutroni a nuclei pesanti (“naturali”, come l’uranio) per ottenere nuclei ancora più pesanti, detti “transuranici”, e non naturali, ossia oggi scomparsi, perché radioattivi con tempi di dimezzamento relativamente brevi rispetto all’epoca i cui erano nati “naturalmente”; ripetute misure, interpretate intelligentemente sulla base delle teorie di Einstein sull’equivalenza energia-massa, dimostrarono infatti che in certi casi particolari il nucleo dell’uranio sfiorato o colpito da neutroni rallentati da nuclei di molecole leggere, per esempio paraffina, anziché accrescersi come ci si aspettava, si divideva fino a meno che dimezzarsi, formando due elementi (più alcune “frattaglie”) nettamente più leggeri e perciò “naturali”, perché decisamente più stabili dei transuranici, che, come si è detto, sono da tempo scomparsi. Il fenomeno, già noto, ma non ancora studiato a fondo, fu chiamato “fissione” e, comportando l’emissione di uno o più neutroni (lenti), oltre a considerevoli quantità di energia superiori a quella impiegata per l’innesco, permetteva una catena di fenomeni uguali, che divenne la base per il cosiddetto “reattore nucleare a fissione”, una risorsa di energia insuperabile allo stato attuale delle conoscenze e dell’impiego effettivo in campo civile e militare.

Questo è un esempio di come una “ricerca scientifica”, benché correttamente impostata per arrivare a certi risultati attesi, abbia portato per puro caso, cioè mancando alcuni dettagli del “metodo”, a conseguenze straordinarie che hanno influenzato la storia mondiale degli ultimi 80 anni.

L’esempio citato è forse il più “chiacchierato” dei giorni nostri, ma è solo uno dei numerosi casi verificatisi negli ultimi quattro secoli, che comprendono anche moltissime “cantonate”  (cioè “scoperte” ritenute erroneamente tali, come le presunte capacità dell’acqua di memorizzare dati), diventate spesso vere e proprie truffe, come la proliferazione di scoperte attribuite a “fusione fredda”, fenomeno mai scientificamente osservato, nonostante teoricamente possibile, ma la cui ricerca fu finanziata lautamente da tutti i governi ricchi e ignoranti degli anni ’80 (gli “inventori” americani Pons e Fleischmann si dettero poi, come è giusto, all’agricoltura) e purtroppo tuttora citata troppo spesso da sedicenti scienziati come la vera energia, oltretutto “pulita”, del futuro (nonostante qualche potente e inevitabile raggio gamma che non è salutare conservare in una cantina concepita per ospitare il vino o una normale caldaia a gas). Non ci si può esimere dal ricordare i due Italiani più famosi del settore, certi Rossi e Focardi (nella foto – il secondo è insegnante di fisica a Bologna; il primo, vero promotore dell'”affare”, non possiede una laurea scientifica), che da un ventennio non solo annunciano la comparsa nei supermercati della loro pentola magica da 1 MegaWatt (per modestia: possono fare di più), ma asseriscono anche di averla venduta all’estero: ora in Grecia, ora in Finlandia, attualmente non saprei dire, sicuramente non in Italia, ma pare certo che le sia stato assegnato un brevetto da agenzia statunitense, a seguito del quale una ditta ha stanziato 800000 dollari per proseguire la ricerca. Confronterei questa situazione da televendita con quella di Fermi, che, emigrato negli USA in seguito alle leggi razziali italiane, in un paio d’anni realizzava, con mezzi “di fortuna”, data la fretta (i dollari però a lui non mancavano), il primo reattore nucleare ad uso ovviamente civile (per riscaldamento o elettrogenerazione), che portò in un altro paio di anni a realizzare bombe all’uranio e al plutonio, a fissione e più tardi all’idrogeno, ma a “fusione”, descrivendo ogni particolare dei fenomeni fisici coinvolti con solide dimostrazioni di fisica atomica e relativistica, mentre Rossi e Focardi (e tutti gli altri che si dilettano di fusione fredda) non hanno ancora saputo buttar giù una sola formula che, dopo un ventennio, spieghi che cosa avvenga nel loro baraccone, che genera vapore a non più di 125°C.

Cambiamo ora argomento e accenniamo brevemente ai 2000 scienziati (ma che bisogno c’era di occuparne così tanti? Non fanno che riciclare vecchi studi superati) che costituiscono l’IPCC, l’istituto foraggiato dall’ONU per lo studio dei Cambiamenti Climatici, fondato anch’esso se non erro nel ’94 (22 anni fa) e che in cambio di vuote cartacce e di riunioni “oceaniche”, con relative scorpacciate di cibi locali, ha prodotto solo apprensione e terrore per il presunto esaurimento di fonti energetiche fossili (che ad oggi non si riescono ad impiegare razionalmente, a causa dell’abbondanza e non della scarsità) e per l’altrettanto presunto surriscaldamento della crosta terrestre (a volte sostituito da improvvise e spaventose inspiegabili glaciazioni) dovuto al demoniaco “effetto serra” generato ovviamente dall’anidride carbonica risultante dalla combustione del materiale fossile (carbone, metano, petrolio, il cui prezzo sul mercato scende ormai da anni a causa della forte riduzione della domanda); per la cronaca ripeto che l’effetto serra permette alla “vita” di esistere solo sulla Terra e non sugli altri pianeti del Sistema Solare e che è dovuto in modo preponderante al vapore acqueo atmosferico e non all’anidride carbonica.

Per non ripetermi, cambio nuovamente argomento e passo alla ricerca biologica e medica, non senza citare però che in campo tecnico-scientifico si fanno silenziosamente avanti la quasi consolidata “robotica”,  le “nanotecnologie” (per esempio il “grafene”, che usa carbonio, che è abbondantissimo, al contrario, per esempio, del Litio, considerato il toccasana per il problema dell’accumulo delle energie intermittenti, dette anche “rinnovabili” come quella solare e quella eolica) e fa la sua apparizione la ”biomimetica”, la nuova bandiera degli ambientalisti che l’hanno sottratta ai bioingegneri. In parole povere, si tratta di osservare certi fenomeni naturali, possibilmente biologici, e di riprodurli con metodi ingegneristici, in modo da generare più energia (o comunque un migliore effetto fisico, ovvero efficienza molto superiore) di quanto non riesca a fare la Natura: un esempio ormai da tempo affermato, grazie ai voli spaziali, è il Velcro, la cui capacità di aderenza e di carico in condizioni ambientali anche ostili è superiore a quella delle zampette di alcuni insetti o piccoli rettili. Sotto i riflettori attualmente c’è il fenomeno bioenergetico più noto e più diffuso, cioè la “fotosintesi clorofilliana”, che grazie alla luce (del sole) produce ossigeno (di giorno) e col suo metabolismo restituisce anidride carbonica di notte, ma con efficienza molto bassa rispetto all’energia solare assorbita. Pare che grazie a un paio di elementi catalizzanti (abbastanza abbondanti sulla Terra) inseriti nel processo riprodotto in laboratorio, si sia riusciti a decuplicare l’efficienza della fotosintesi, aprendo prospettive straordinarie (se non è una bufala) alla produzione di energia fotovoltaica con materiali a basso costo, grazie all’abbondanza, alla lunga durata e alla facilità di manutenzione, e quindi a bassissimo prezzo (perché, per chi ancora non lo sapesse, l’energia fotovoltaica tanto reclamizzata negli ultimi venti anni costa ancora ben più di qualunque altra e necessita per ora di costosissimi incentivi pubblici); resta comunque aperto il problema dell’accumulo e in ogni caso l’entrata in servizio di un simile procedimento su larga scala non è previsto prima di 20-40 anni. Da qui la necessità di investire molto e subito su questa ricerca, assicurandosi però che la probabilità di mantenere le promesse sia altissima: per ottenere ciò occorre assicurarsi che la strada imboccata finora sia del tutto corretta e sicura.

Tutto quanto auspicato si ottiene applicando anche alla ricerca, come e più che alla produzione, sani e efficaci criteri di controllo della qualità, basati su conoscenze tecniche e fisiche (ossia ingegneristiche) corrette; il che comporta prima di tutto la perfetta conoscenza del comportamento dei materiali impiegati, sia dal punto di vista della persistenza delle qualità fisiche nel tempo sia in condizioni ambientali variabili, agli estremi dei limiti imposti dalle condizioni di utilizzo, con un fattore di sicurezza superiore ad almeno 10 (e non deve sembrare eccessivo, tanto da potere essere sottovalutato) rispetto a quello calcolato teoricamente; praticamente non deve accadere di ripetere gli errori di cui ci si lamenta ogni volta che un terremoto fa crollare case il cui progetto sia stato giudicato “a regola d’arte” da esperti e dalle autorità competenti. Attenzione che qui si entra in aperto conflitto con la moda corrente della “ricerca della biodegradabilità per il rispetto dell’ambiente” e si deve risolvere il dilemma, che non si ponevano gli artisti dell’antichità, per esempio, della durata di un certo prodotto (e quindi anche del suo eventuale smaltimento a fine vita). Solo così la cosiddetta “ricerca” può essere giudicata completa, altrimenti è un’aleatoria dimostrazione da laboratorio, senza la minima garanzia di soddisfare requisiti imposti dalle condizioni reali di utilizzo. Ovviamente aumentano i costi sia della ricerca stessa sia del prodotto, ma diminuiscono quelli da sostenere per rimediare a inconvenienti  e danni a cose e persone in caso di incidenti o imprevisti (un buon ricercatore deve saper ridurre al minimo anche questi ultimi).

One Comment

Comments are closed, but trackbacks and pingbacks are open.