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Mario Scelba, un politico da rimpiangere

di Luciano Garibaldi – Nel novembre scorso ricorreva  l’anniversario di uno degli episodi più infami della storia politica italiana della seconda metà del secolo passato: l’assassinio, a Milano, dell’agente di polizia Antonio Annarumma, che, in quel tragico 19 novembre 1969, ebbe il cranio trapassato da un tubo metallico scagliatogli contro da uno degli studenti della Statale che avevano “okkupato” l’ateneo, erano scesi in piazza solo per attaccare polizia e carabinieri, ed erano sostenuti, protetti e finanziati dal PCI. Se ministro degli Interni fosse stato Mario Scelba, sicuramente quella tragedia non si sarebbe conclusa con l’immunità per gli assassini, come invece accadde per la debolezza e la vigliaccheria del governo Rumor e per la superficialità (ma forse sarebbe più corretto parlare di sinistrismo) del cosiddetto “terzo potere”.
Mario Scelba, capo del governo nel 1954-55, è una delle figure politiche del Novecento italiano che sembrano scomparse dalla storia. Eppure ebbe un ruolo importante nel rafforzamento della democrazia in Italia nel secondo dopoguerra. Il 30 giugno 1960, quando gli agenti della «Celere» vennero selvaggiamente aggrediti e sfregiati con i terribili ganci da portuale nella piazza De Ferrari, cuore della Genova rossa, furono in molti a rimpiangere Scelba. Lui, in quella stessa Genova, dodici anni prima, aveva saputo ristabilire l’ordine con la forza. Allora, nel ’48, Genova era caduta nelle mani degli insorti comunisti in seguito all’attentato a Togliatti compiuto dallo studente Antonio Pallante. Invece, in quel 30 giugno 1960, i comunisti erano diventati nuovamente padroni della piazza per una manovra studiata a tavolino a Roma con la complicità dei democristiani Fanfani e Moro che volevano pugnalare, dall’interno, il governo Tambroni, il primo, nella storia del dopoguerra, a reggersi con i voti del MSI.
Ma qual era la differenza tra il luglio ’48 e il giugno ’60 in quella Genova che ha nel proprio destino di essere al centro dei grandi sommovimenti storici d’Italia (la rivolta di Balilla, i Viva Maria del 1796, la Carboneria del 1832 con le condanne a morte di Mazzini e Garibaldi, la spedizione dei Mille, il discorso di D’Annunzio a Quarto per l’entrata in guerra nel 1915, la resa ai partigiani dell’Armata Meinhold nell’aprile 1945, per finire al G8 del 2001, “si parva licet componere magnis”)? La differenza stava nei mitra e nelle pistole dei poliziotti. Nel ’48 quelle armi avevano le pallottole, e i comunisti lo sapevano. Nel ’60, un ordine del ministro dell’Interno (non più Scelba, ma Spataro) aveva fatto sì che i «celerini» scendessero in piazza con le armi scariche. I comunisti erano stati debitamente informati e si scatenarono. Finirono all’ospedale San Martino, coi volti sfregiati dai ganci di ferro da portuale, 87 agenti e ufficiali di polizia.
L’azione politica e di governo di Scelba fu determinante, per l’Italia, dall’immediato dopoguerra fino alla metà degli Anni ’50. Una decina d’anni, dunque, ma decisivi per la salvaguardia della libertà e della democrazia nel nostro Paese. Senza uomini come Scelba, quella libertà l’avremmo perduta. Nella peggiore delle ipotesi, saremmo diventati una Cecoslovacchia. Nella migliore, una Jugoslavia. Invece, grazie a democristiani come Scelba (e come De Gasperi) siamo diventati una nazione libera, grande e rispettata (oggi, magari, un po’ meno).
Parlando di Scelba e del suo ruolo nella storia d’Italia non è possibile non fare riferimento al fondamentale libro biografico «Il ministro Scelba», scritto da Vincenzo La Russa dieci anni fa, nel 2002 e edito da Rubbettino. Una ineccepibile ricostruzione storica della vita di Scelba che, nato a Caltagirone, in Sicilia, nel 1901, affrontò la sua prima militanza politica nei circoli cattolici legati a Don Luigi Sturzo, per poi subire una serie di privazioni e di emarginazioni a Roma durante il fascismo. Dopo aver svolto intensa attività nella clandestinità del periodo di occupazione tedesca, poté finalmente emergere in politica  come ministro dell’Interno nel governo De Gasperi a partire dal 30 agosto 1947.
Tempi durissimi. Gli esponenti più estremisti del movimento partigiano non avevano ancora finito di far scorrere il fiume di sangue fraterno sparso a piene mani a partire dal 25 aprile 1945 e la polizia era piena di comunisti. Erano i 15 mila ex partigiani rossi «imbarcati» nelle Questure, per dare loro uno stipendio, e un’arma, dal governo Parri del post 25 Aprile. Era di quegli infidi servitori che Scelba doveva anzitutto sbarazzarsi. E lo fece in parte proponendo loro ricche buonuscite (un anno di stipendio per chi era stato assunto magari da un mese costituiva una leccornia alla quale gli elementi meno motivati ideologicamente non potevano certo dire di no), in parte trasferendo in Sardegna (vecchio, ma pur sempre efficacissimo metodo) gli elementi più temibili. Per contro, aprì gli arruolamenti agli ex ufficiali delle polizie speciali fasciste (Ferroviaria, Portuaria, Stradale, Forestale, Africa Italiana) a patto che rinunciassero al grado di ufficiale per servire come maresciallo maggiore. Fu così che, nella polizia, i marescialli con un passato “di regime” rimpiazzarono i sottufficiali col fazzoletto rosso al collo. Le velleità bolsceviche ricevettero una doccia fredda.
Non mancarono gli scontri di piazza, non di rado cruenti: 75 morti e oltre 5000 feriti tra il 1948 e il 1954: alcuni poliziotti, ma in gran parte rivoltosi che aggredivano armati le forze di polizia, i «celerini» di Scelba. Come scrisse Vincenzo La Russa nel suo libro dedicato a Scelba, «i  massimi dirigenti comunisti si resero conto, a un certo punto, che la linea insurrezionale non aveva serie possibilità di successo. Da qui le direttive a non spingere la protesta oltre certi limiti. Si temeva peraltro, a Botteghe Oscure, che le violenze finissero per danneggiare elettoralmente il partito, impegnato a contrastare, in nome della “pace”, l’alleanza atlantica dell’Italia. Togliatti capì che a Mosca non interessava più di tanto che gli operai non riuscissero a occupare le fabbriche: anzi, erano episodi da non mostrare al popolo russo. Più graditi, oltrecortina, i massicci cortei antiamericani in un Paese occidentale come l’Italia. E Togliatti quei cortei grandiosi li sapeva organizzare».
Così, un po’ per la fermezza di Scelba (non meno antifascista che anticomunista, volendo ricordare la legge che prende il suo nome e che vieta la ricostituzione del partito fascista), un po’ per l’accortezza di Togliatti, l’Italia uscì dagli anni bui. Vi sarebbe ripiombata con il fetido (per alcuni “mitico”) Sessantotto.

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