Press "Enter" to skip to content

La Memoria e la Scrittura

di Fabio Tirelli (conferenza del dottor Fabio Tirelli in Sinagoga, domenica 29 gennaio 2017) – “La morte dell’altro uomo mi chiama in causa e mi mette in questione, come se io diventassi, per mia eventuale indifferenza, il complice di questa morte, invisibile all’altro che vi si espone”. Così Emmanuel Levinas (nella foto), uno dei più grandi filosofi ermeneutici contemporanei sintetizza, in maniera magistrale, l’incontro fra l’Etica e la Metafisica. L’originale interpretazione del grande pensatore francese, relativamente alla filosofia heideggeriana dell’Essere, dove l’esistenza umana viene condotta a pensiero sul linguaggio o in altre parole all’esserci nel mondo come progetto inesorabilmente finito, ne ribalta radicalmente il significato, ponendo nel reciproco riconoscimento del Volto dell’Alto e nella simpatia (intesa nel senso originario come capacità di soffrire insieme) fra unità destinate ad una totalità, il centro della sua riflessione. Ho voluto, invero un po’ semplicisticamente, citare questa radicale inversione (o conversione) della filosofia occidentale giunta al suo acme nella Germania fra le due guerre con l’ Esistenzialismo post fenomenologico, compiuto da Levinas (e anche da Altri come Gadamer e in Italia Pareyson) per dare il primo senso alla mia riflessione qui nel Tempio: come il senso dell’essere nel mondo possa riguardare da un lato la prometeica volontà dell’uomo di oltrepassare il suo limite, la sua frontiera, per sfociare nei casi storicamente determinati nella negazione della singolarità umana a favore della moltitudine astratta incarnata dello Stato Etico, ovverosia possa trasformarsi nella perenne e più faticosa ricerca del Volto dell’Altro, nel riconoscersi non moltitudine ma Popolo , in perenne ricerca della Verità’ e della condivisione del Destino ultimo ,coincidente con l’ erranza del Popolo stesso e infine con la sua stessa coscienza.

Essere non significa necessariamente esserci
In altre parole, nell’addentrarci nel significato del reciproco riconoscimento dell’alterità come segno di confine fra la Filosofia ed Etica, iniziamo ad affrontare il tema centrale di questa nostra riflessione, che altro non è che la profonda e – per molti di noi – irreparabile frattura nel pensiero occidentale, occorsa nella concezione stessa di Etica con l’avvento degli Stati Totalitari del primo dopoguerra. Vorrei provare a spiegarmi meglio: già l’hegelismo aveva segnato un profondo allontanamento dalle radici giudaico cristiane del filosofare (non tanto in Marx quanto negli epigoni della cosiddetta destra hegeliana); ma ancora di più la divaricazione si era sviluppata in Heidegger e nei suoi seguaci ponendo la centralità della riflessione sul tema dell’Esserci e non sul significato dell’Essere. Trasformare la trascendenza in immanenza non poteva altro che significare allontanare dal disegno divino l’uomo e il suo pensare lasciando liberi i Mostri della ragione a galoppare nelle praterie del nostro ‘essere’ collettivo europeo.

Il Divino, l’Erica e l’Estetica
Ben lungi da me i teorizzare gli orrori della Shoa (che qui ricordiamo)e dei Gulag staliniani (che non possiamo non ricordare) come metafora della perdita del Divino nella nostra storia; è tema già trattato da ben altri che da chi parla, io mi limito a riferire alcuni circoscritti eventi che ne sono da un lato simbolo e dall’altro epifania e che qui con semplicità voglio allineare:

  1. l’estetica che scaturisce dal riconoscimento dell’alterità del Volto del nostro simile si è sviluppata impetuosamente in tutto il Secolo breve e coerentemente ha scaturito il concetto di mercificazione della ‘individuo(abitato appunto dalla Merce, un vuoto/pieno da riempire/svuotare) ;
  2. l’etica del Sembiante, cioè di ciò che sta fra l’Eidolon e il Viso, ha percorso sempre di più il cammino laterale, in modo vistoso creando innumerevoli aspettative nel Popolo di Dio, quale che fosse la sua lettura dell’Apocalisse di Giovanni come Libro delle profezie, tanto cara a un certo esoterismo o come circolare metafora del tempo del trionfo divino.
    Insomma due estremi, che Levinas in qualche misura tenta di avvicinare nella sua incrollabile e laicissima fede che il percorso dell’uomo sia il principio Divino del riconoscimento della sofferenza dell’Altro. Né l’estetica dell’Alterità né l’etica del Sembiante ci avvicinano al Volto di Cristo, diremmo noi cristiani o a quello di Abramo, diremmo noi qui nel Tempio.
  3. Per molti ricordare quando il mondo come lo conosciamo è stato sull’orlo dell’abisso è una pratica desueta, scontata e un po’ demodé: eppure il monito di un grande pensatore contemporaneo, Jacques Attali ( Dizionario Innamorato dell’Ebraismo) ci ricorda come ancora oggi … “l’ebraismo è conosciuto male e in modo caricaturale. In particolare oggi, quando forze antigiudaiche ridiventano più attive che mai in tutto il mondo”. Allora ricordare, soprattutto per noi Gentili, diventa non soltanto un ottimo esercizio della memoria, che si pone qui e ora come valore in sé, oltre la stessa Estetica e al di là dell’Etica, esercizio, abbiamo detto, di riconoscimento dell’Alterità dell’Altro e della sua simpatia, ma soprattutto importante antidoto a qualunque tentazione di declassare il Male Assoluto (la Shoah) a semplice per quanto tragico errare/ errore della civiltà occidentale, che deve essere assolto sempre e comunque. Il confronto fra il logocentrismo della metafisica occidentale e la cultura della differenza, che fu studiato da Derrida e dallo stesso Lacan in psicoanalisi, ci porta a riconoscere come la memoria vista non come riepilogazione favolistica e distratta, ma come graphe, come riscrittura continua del Testo Sacro e delle sue infinite disseminazioni sia il connotato centrale del nostro Esserci. Scrivere e ricordare del Male assoluto già avvenuto storicamente è sempre potenzialmente da rinvenire in fondo per noi Cristiani non può che ricordarci pienamente di Giovanni dell’Apocalisse e delle Sue visioni sulla/sulle venuta/venute dell’Anticristo sotto molteplici forme: importante è ricordare – di nuovo – che il tempo dell’Apocalisse e’ un tempo circolare e non lineare, in cui tutto è già accaduto e può di nuovo accadere.
  4. Qualche elemento di “consolazione” nella nostra breve riflessione sulle crepe dell’ Occidente e sul potere riparatorio del pensiero dell’Ebraismo lo possiamo però infine trovare. Vorrei concludere ricordando una straordinaria analogia letteraria, ma non solo, che ci dimostra una volta di più come la visione di dannazione e redenzione permanente propria dell’Occidente e quella del tempo (circolare?) dell’ Attesa dell’Altro che ci riconosce come Sé nell’Eterno si possano in fondo con-fondere. Quando Mary Shelley, nella piovosa estate del 1816 a Villa Diodati compose, come per gioco, il suo Frankenstein, diede vita a un simbolo ancestrale potentissimo, quello dell’uomo creatore, demiurgo di alterità, che in qualche modo si ispira al suo stesso demiurgo e per questo lo perseguita (possente metafora del superomismo ma anche della assoluta imperfezione umana).

La Wollstonecraft attinge a piene mani alla storia del Golem o meglio ad una delle storie del Golem,a quello costruito (non creato) dal Rabbino Judah Loew Ben Bazalel di Praga, che voleva i giganti di argilla come suoi servi, fino a che di uno perse il controllo (dimostrandosi un progenitore di Frankenstein). Lui smise di servirsene e lo nascose in una vecchia Sinagoga… i nostri Fratelli Maggiori erano senza dubbio più saggi o più abili…
Ma quello che più mi interessa è che il Golem venne attivato dallo scrivere sulla sua fronte la parola “Verità” (Emet) e tutti noi sappiamo come potesse essere disattivato. E in questa somiglianza/differenza (da una parte il Logos creatore, dall’altra la parola scritta regolatrice di vita o morte) si costruiscono le nostre identità e di questo abbiamo oggi tutti noi di essere orgogliosi.

Comments are closed.