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Arriva l’intelligenza artificiale: come comportarsi per trarne vantaggio e non esserne sopraffatti?

Avevo sicuramente otto anni (1950) e con quella febbre allora chiamata “di crescita”, tipica di quell’età, quando in soli due giorni lessi il mio primo libro di fantascienza in versione integrale, ma tradotta: “20000 Leghe Sotto i Mari” (del 1870, di Jules Verne, che allora chiamavamo Giulio Verne, col nome italiano e la pronuncia della “e” finale, secondo le persistenti regole fasciste). L’ultimo lo lessi nel 2006, durante la terapia intensiva per infarto, e si trattava di “The Time Machine” di H.G. Wells (1895). Assistetti anche, nella mia lunga vita (prima di “2001, Odissea nello Spazio”del 1968 e delle saghe di “Guerre Stellari” e “Star Trek”), anche al maggior numero possibile di film “classici” del genere, cominciando con “La Guerra dei  Mondi” (1953) e “Il Pianeta Proibito” (1956) e, finendo nel 2015, col mitico “Metropolis” (regia di Fritz Lang, 1927), accompagnato dal vivo dalla Filarmonica della Scala all’Arcimboldi.
Non cito perché, secondo me, non rappresentano nessuna “robotica” passata o futura, tutta la produzione giapponese di cartoni animati di robot “transformer” e delle orribili nippo-americane tartarughe Ninja, fenomeni che, dopo avere bacato i Giapponesi, contribuiscono largamente alla diseducazione americana e inevitabilmente anche europea.
Più mi sforzo di ricordare gli ingegnosi contenuti di romanzi e film di “fantascienza” e più mi convinco che in essi il ruolo della robotica, soprattutto di quella antropomorfa, che tanto affascina oggi i Giapponesi e terrorizza giustamente gli Occidentali, era praticamente nullo (impressionante per quei tempi, perché lo vedremo davvero, era l’ologramma animato e parlato nel “Pianeta Proibito”). Uniche eccezioni che io ricordi sono “Io e Caterina” con Alberto Sordi che si innamora di una cameriera-robot (1980), e “Westworld” (1973), in cui Yul Brynner, il cui cuoio non capelluto sembrava di per sé una calotta di plastica, faceva la parte di un umanoide pistolero in un “resort” dove i visitatori americani potevano rivivere le avventure più movimentate del vecchio West: in entrambi i film non c’era niente di tecnologico, tanto che alla fine ci si poteva anche dimenticare di avere assistito a vicende i cui protagonisti erano robot.

Il robot che accendeva i fiammiferi e il videoregistratore
Altri miei occasionali, ma istruttivi e indelebili incontri con la robotica del secolo scorso furono: l’accompagnamento di una scolaresca di maturandi del 1966 (mezzo secolo fa) fino a Latina per ammirare in quei laboratori la grande novità di due mani meccaniche che, collegate elettromeccanicamente a quelle vere d’un operatore, strisciavano un “fiammifero svedese”  sul lato delle sua scatoletta e riuscivano puntualmente ad accenderlo senza provocare disastri; negli anni ’70 smontai per ripararli alcuni videoregistratori ed ebbi modo di studiare i numerosi meccanismi e sensori, assolutamente infallibili e precisi nei tempi, per riconoscere il tipo di videocassetta inserita, la sua durata totale e l’occupazione parziale, il tempo esatto, al decimo di secondo, dell’avvio e dell’arresto pre programmati, il posizionamento del nastro dalla posizione di standby a quella di operazione e viceversa, la capacità di ricerca dei marcatori che indicavano inizio e fine di scene “preferite”, il monitoraggio continuo e preciso dello scorrere del tempo, i movimenti lenti e veloci in avanti e all’indietro, eccetera; negli anni ’70 tutti avevano in casa almeno un “robot” di questo genere (ma senza faccina e occhi languidi) e non se ne rendevano conto, tanto che ben presto queste macchine di uso relativamente facile, di alta precisione e di meravigliose prestazioni domestiche furono snobbate, addirittura osteggiate dagli ambientalisti per l’eccessiva presenza di lucette di stand-by, fino a sparire del tutto con l’affermazione dell’era digitale negli anni 2000: nessuno se ne accorse, né si pose il problema se la drammatica transizione danneggiasse o migliorasse l’occupazione e l’economia; si vendettero milioni di quelle macchine, che restarono inutilizzate nei salotti, fino a contribuire oggi ad aumentare i problemi di smaltimento dei rifiuti tecnologici, che sono appena cominciati e sono veramente una minaccia per l’inquinamento del futuro prossimo. Negli anni ’80 furoreggiavano, in aeroporti e vetrine, anche alcuni manichini in grandezza naturale, che tenevano lunghi discorsi (ricordo la pubblicità della Marlboro) muovendo in modo assolutamente sincrono i muscoli facciali e varie parti del corpo, effetto che del resto era già presente in tutti i resort della Disney, di cui ricordo i discorsi robotizzati di un somigliantissimo Abramo Lincoln e di altri noti personaggi del passato.

Un genio Made in Italy dimenticato
La mia esperienza personale si concluse negli anni ’90 con un incontro casuale, durante un viaggio aereo, col vero padre della robotica industriale mondiale, il quasi già dimenticato mio coetaneo professor Marco Somalvico (deceduto nel 2002), che fu il vero genio nel settore, che in un paio d’ore di conversazione interessantissima mi chiarì vari aspetti della sua professione, che fino ad allora avevo affrontato molto superficialmente, nonostante mi fossi occupato pochi anni prima anche del possibile uso di intelligenza artificiale (A.I.) a bordo di satelliti (esperienza allora fallita miseramente e rispolverata recentemente, prima nei telefilm di fantascienza e contemporaneamente per applicazioni, per esempio diagnostiche e chirurgiche, in cui potrebbe avere maggior successo che negli anni ’80). Il clima sociale descritto nei primi libri e film di fantascienza, soprattutto “The Time Machine” e “Metropolis”, era ben più terrificante di quello che i nostri “illuminati” (e decisamente ignoranti) politici della civilizzazione occidentale ci prospettano, con l’improbabile ma temutissimo avvento dei robot (chissà perché antropomorfi, come se da decenni quelli veri a normali bracci snodabili non avessero preso il posto degli operai nelle catene di montaggio delle automobili) e dell’Intelligenza Artificiale, a cui ho accennato sopra.
Insomma, i finanzieri e gli industriali si rendono conto che è praticamente scongiurata, anche se per alcuni ingenui è invece inarrestabile e irreversibile (e chi l’ha mai vista, se non sui giornali mercenari?) la catastrofe energetico-climatica di natura antropica, senza aver capito se l’ormai insabbiato Protocollo di Kyoto abbia avuto o avrà un qualunque effetto, positivo o no (lo stesso era già accaduto con l’abolizione del gas freon per “chiudere” il buco dell’ozono). Si rende dunque necessario per i suddetti speculatori (come si vede, non si tratta mai di veri scienziati, che sono solo timorosi “specchietti per le llodole”, in cerca di uno stipendio sicuro), immaginare un’altra causa, possibilmente “informatica”, di sterminio, la cui “antropicità” non possa essere messa in dubbio. Le recenti proposte sfuggite a quell’incosciente di Bill Gates (e alcuni altri suoi pari o sociologi giornalisti creduloni, ossia ignoranti) di “tassare i robot perché lavoratori come gli umani”, hanno sancito per il solito “poppolo” e i suoi scaltri padroni la veridicità del “pericolo robotico” incombente.

Il business che viene dalla paura
Ma speriamo, per il bene dell’Umanità, che il “servo della gleba”, ma votante e “dimostrante”, percepisca finalmente e correttamente che tutti gli stravolgimenti degli ultimi due secoli sono stati strumentalizzati solo per allarmare gli sprovveduti in modo tale che mutassero il più spesso possibile (inizialmente bastava ogni mezzo secolo, oggi anche ogni due decenni, meglio ancora se uno solo) lo stile di vita e gli strumenti per viverla, in modo da arricchire e gonfiare lo strapotere di chi tali strumenti, molto spesso inutili o spropositati, inventa (o meglio re-inventa) e produce, per venderli a un prezzo tanto più caro quanto maggiore è la paura inculcata dalla previsione di catastrofi: frane, alluvioni, desertificazioni, glaciazioni e disgeli, ma anche carestie e malattie o semplice depressione e ansia- tutto fa brodo; solo occasionalmente, perché non porta a profitti economici, ma a vere catastrofi, si parla del vero pericolo incombente, e per fortuna improbabile, di un meteorite che colpisca di nuovo la Terra, come si dice sia avvenuto 60 milioni di anni fa con lo sterminio dei dinosauri e compagni, ma anche nel 1916 col ben più piccolo macigno caduto (forse) in Siberia nella Tunguska, dei cui effetti nessuno a quei tempi (di Grande Guerra) ebbe tempo e mezzi per interessarsi e oggigiorno è stato praticamente dimenticato. Perché è questo il vero pericolo? Perché se saremo sfortunati, dopo l’avvistamento di un meteorite tanto grosso da provocare stragi di Umani e animali (e vegetali) ci saranno al massimo un paio di giorni per prendere contromisure e, ad oggi, ci sono solo soluzioni fantasiose al problema, ricavabili dai film prodotti sull’argomento, e quindi di nessuna affidabilità tecnico scientifica. Il surriscaldamento o l’inquinamento, veri, o più probabilmente falsi, lasciano qualche decina di anni o anche un secolo per discutere e pensarci, e per lo più si risolvono da soli (per fortuna), o con un piccolo contributo dell’ingegno e della tecnologia umana. Ma prima di procedere con la nuova bufala delle macchine intelligenti che in pochi anni dovrebbero sterminare l’umanità, sostituendosi ad essa, mi si lasci terminare il discorso sulle “macchine buone”, reali o immaginarie, molto o poco “intelligenti”, che meritano un’onorevole sepoltura dopo oltre 5000 anni di onorato servizio.

Il progresso non è mai contro la natura
Non so le la prima macchina a larga diffusione sia stata la leva o la ruota, o l’ascia, e prima ancora la pietra levigata e tagliente, fatto sta che ogni volta che l’ominide di 30 o 40 mila anni fa capiva al volo quando un oggetto o un semplice esercizio fisico (per esempio saltare invece di strisciare) potessero facilitargli la vita, non si poneva la domanda se ciò che faceva offendesse o no la Natura e metteva in pratica, perfezionandolo il più possibile, l’espediente concepito a proprio vantaggio; altrimenti la sua pur notevole forza muscolare, neanche se unita a quella degli animali da cui si faceva già aiutare (quando non doveva combatterli e abbatterli per appropriarsi delle risorse del territorio), non gli avrebbe permesso di trovare il nutrimento e il riparo dalle intemperie per sopravvivere. L’avvento della “macchina” nella vita dell’Umanità (non si badava ancora se e quanto dovesse essere “intelligente”) dovette perciò essere rapido almeno quanto quello delle armi (asce, randelli, lance, pugnali, arco e frecce avvelenate, fionde e frombole). Le macchine in particolare trasformavano da uno all’altro i vari tipi di energia (tutti termini allora ignoti, ma adesso siamo abbastanza istruiti per capirli), per esempio il flusso e la caduta dell’acqua per far ruotare le turbine muovendo meccanismi per gli usi più svariati, il vento o i getti di vapore per muovere le pale dei mulini e, attraverso macine di pietra, triturare sementi o rocce friabili, il fuoco per scaldare o addirittura cuocere i cibi per renderli più gustosi o digeribili, per citare solo le scoperte più rivoluzionarie. E mai una volta che il signor Neanderthal, o il signor Cro-Magnon e tanto meno il signor Sapiens-Sapiens si ponessero il problema della privazione di lavoro per qualche collega, nemmeno se troppo giovane (i vecchi non c’erano) o malaticcio (di questi ce n’erano tanti, ma duravano poco, o per cause naturali o forse più spesso antropiche, come “piacerebbe” oggi ad alcune nazioni “civili”, con una bella mazzata in testa): si festeggiava la diminuzione della fatica, l’aumento della produzione, il miglioramento della qualità del prodotto, la prospettiva di ulteriori perfezionamenti e la speranza di una maggior tranquillità della vitaccia che tutti, anche i capi e i furbi sciamani, condussero per migliaia di anni.

Ben vengano le scoperte a vantaggio della qualità della vita
Si immagini per esempio il sollievo che provarono le antiche popolazioni quando finalmente il papiro, o la pergamena ottenuta da pelli essiccate, e l’inchiostro (quasi) indelebile permisero di smettere di registrare i documenti scalpellando complicate “icone” su pietre mai abbastanza tenere (alcuni però avevano già sperimentato l’incisione su cera o paraffina per mezzo di stecchini, soluzione che già allora permetteva il riciclo, i famosi “incunaboli”, ma con svariati altri inconvenienti che impedivano in particolare la buona conservazione dei documenti). Insomma, per millenni si accolsero con gioia tutte le invenzioni e scoperte che alleggerivano il lavoro a vantaggio della qualità e quantità del prodotto e soprattutto della vita. Qualche scettico ci sarà stato di sicuro: immagino le risate che accolsero il genio che scoperse il “piano inclinato”: certamente ciò accadde molto prima dell’invenzione della ruota, ma non dava quell’idea di meccanismo complicato che invece era fornita per esempio da un complesso di leveraggi. Tuttavia alcune semplici dimostrazioni convinsero i cavernicoli che con il piano inclinato, utilizzato da un paio di uomini (o anche donne) muscolosi, si potevano portare ad altezze notevoli dei pesi che richiedevano il doppio o il triplo del personale per ottenere il medesimo risultato (anche gli argani qualche tempo dopo espletarono funzioni simili e vennero accolti con pieno favore). E così nessuno lapidò l’inventore: al massimo lo sacrificarono riconoscenti agli dei, sgozzandolo su un altare inclinato. Solo più tardi si capì, ma non sempre, che un individuo capace di una tale invenzione era conveniente tenerlo in vita nella speranza che gli venissero altre ispirazioni simili. Insomma le vere innovazioni, e purtroppo anche molte di quelle false, vennero sempre apprezzate per decine di migliaia di anni, con qualche clamorosa eccezione, che di solito fu, tardivamente, rivalutata, come accadde nel campo delle teorie scientifiche (di Copernico e di Galileo, per citare solo le prime che vengono alla mente). Ogni volta che si rifiuta erroneamente un elemento di progresso, anche se potenzialmente usabile a scopi criminosi, come del resto qualsiasi innovazione, si provoca un danno enorme per l’Umanità e purtroppo si deve ammettere che, mentre la reazione immediata a un’innovazione a scopo pacifico è quasi sempre un “no” deciso o una forte perplessità nell’accettarla, si è constatato che il più efficace dei mezzi per accogliere una novità è lo scoppio di una guerra: lo si è visto recentemente, e cito ancora a caso, con lo sviluppo dell’aviazione, con l’incentivazione delle missioni spaziali e con l’uso dell’energia nucleare.

Parliamo del robot
Speriamo vivamente che non accada lo stesso (cioè che non scoppi una nuova guerra) per la robotica e l’intelligenza artificiale, di cui è il momento di spiegare l’essenza e lo stato di avanzamento.
Dunque i robot non sono altro che macchine che aiutano l’uomo (e anche la donna), non tanto a pensare (ma se si potesse, perché no?), quanto ad alleviarne le fatiche fisiche: guarda caso, questa definizione, compreso il “pensiero”, coincide (superandola) con quella degli animali classificati come “domestici”. Già questo basterebbe a giustificare la fabbricazione in larga serie e su scala mondiale di macchine del genere, a cui dovrebbero contribuire obbligatoriamente, e con grande entusiasmo, soprattutto gli animalisti, a meno che anche fra loro non si annidino i furbastri che, appresa la notizia che “c’è da faticare col cervello”, non si mettano a “proteggere” certi materiali “rari”, comportandosi un po’ come quei vegani che vogliono salvare gli animali, ma non si offrono volontari a zappare la terra, come dovrebbero. Allora: sorvoliamo sulle “macchine” che già entusiasmavano gli spettatori delle tragedie e commedie dell’antica Grecia, e poi di Roma, non parliamo delle straordinarie rappresentazioni di apparizioni divine o demoniache, abbellite anche da fuochi d’artificio e spaventosi effetti sonori, dei secoli rinascimentali (ai tempi di Leonardo da Vinci, per intenderci, il più richiesto dai signori dell’epoca) parliamo, perché ne vale la pena, di quelli che negli ultimi due secoli chiamiamo con molta diffidenza e scetticismo “robot”, che, a partire dal 1700, si chiamavano con grande ammirazione “automi”. Erano marchingegni, all’aspetto molto spesso umanoidi, considerati tuttavia con minore curiosità e apprensione di quanto non accada ora, tanto comune era la loro frequenza in moltissime città e borghi e anche palazzi: in tutta Europa e ormai nel nuovo mondo c’erano ingegnosissimi “meccanici di precisione” che creavano fantastici scenari e personaggi animati, preferibilmente sui campanili delle cattedrali e sulle torri dei palazzi del governo, perché fossero ammirati dai visitatori delle grandi piazze, fungendo anche da orologi, che ormai sostituivano le pur ammirevoli meridiane, segnando infallibilmente le ore, come le ombre degli gnomoni si spostavano obbedendo ai movimenti naturali e sperabilmente eterni del sole.

I meccanismi del presepe
Questi spettacolari manufatti sopravvivono nei Paesi cristiani, nei Presepi natalizi (quando ero bambino, mio Papà ne costruiva uno diverso ogni anno, cominciando a lavorarvi dalle prime notti autunnali) per i quali si organizzano ancora in qualche città concorsi a premi. I meravigliosi meccanismi erano azionati da robuste molle a spirale, ma anche da pesi che scendendo per gravità trascinavano gli anelli di una catena sui denti di un primo grande ingranaggio che, ruotando lentamente ma secondo leggi fisiche inesorabili, trasmetteva energia e moto a una miriade di ruote e ruotine, bielle e manovelle ad esso collegate, che, a seconda dei gusti del committente, facevano apparire alle finestre delle torri ora delle processioni variopinte di angeli e santi, ora i movimenti dei corpi celesti a quei tempi conosciuti, quasi sempre con accompagnamento musicale di campanellini, “carillon” e altri strumenti a percussione (e che dire dei “moderni” planetari?  Quello di Milano fu donato alla città da Ulrico Hoepli nel 1929, un anno dopo di quello di Roma, e ogni bambino milanese da allora lo visita una o più volte, accompagnato immancabilmente dalla maestra elementare o anche dai genitori). Tutto ciò che si è salvato da guerre e terremoti (e vandalismi di origine religiosa) è tuttora visibile nelle antiche città del Nord e Centro Europa ed è veramente uno spettacolo vedere a poco a poco riempirsi di turisti (attrezzati con binocoli e apparecchi da ripresa) le piazze, poco prima che, ad intervalli di tempo noti, appaiano queste straordinarie scene. Personaggi e oggetti astrali sono generalmente piccoli (perché numerosi), ma non vanno dimenticati i due famosi giganteschi “Mori” di piazza san Marco a Venezia, che con grossi martelli battono ogni ora la grande campana posta su una massiccia torre sul lato sinistro della facciata dell’antica basilica, e naturalmente le impressionanti proiezioni della volta celeste stellata generate dalle due grandi sfere dei succitati planetari. Alcune cattedrali e basiliche dispongono anche internamente di tali capolavori ed è spesso un problema regolare l’accesso dei curiosi che non possono credere che in tempi così remoti si sapessero realizzare macchine così precise e anche “intelligenti”, perché segnano con la massima precisione il passare delle ore e eseguono movimenti che imitano mirabilmente quelli umani.

La straordinaria meccanica dei secoli passati
Le opere di questi maestri della meccanica erano leggendarie (il primo a costruirne uno, un guerriero con corazza, pare sia stato, manco a dirlo Leonardo da Vinci nel XV secolo) e si parlava già nel ‘600 di singoli “personaggi”, costruiti in grandezza naturale, che venivano costruiti per essere esibiti all’interno dei palazzi signorili, con spettacoli programmati selezionabili su comando, da mostrare agli invitati delle grandi feste. Immagino che l’unico inconveniente di questi capolavori fosse, allora come oggi, la fonte di energia limitata, che richiedeva che le molle o i pesi venissero ricaricati periodicamente e puntualmente, affinché gli orologi non andassero fuori tempo o gli spettacoli non si arrestassero nei momenti più interessanti (i mulini a vento olandesi ormai sono alimentati elettricamente, quasi che il tanto lodato vento fosse sceso in sciopero per questo lavoro, che è stato fondamentale per recuperare all’Olanda un gran fetta di territorio). Naturalmente anche la letteratura trasse ispirazione da queste opere (immaginando bambole straordinariamente brave, nella danza e perfino nel canto, tanto da fare innamorare perdutamente gli ammiratori umani) e, dopo la letteratura, anche la musica e il balletto, cosicché di questi antichi automi rimangono descrizioni reali e più spesso fantastiche, specialmente ad opera di Hoffman (il più noto e fantasioso), di Offenbach, di Tchaikovskij, di Délibes e molti altri artisti romantici. Quel che è certo è che le cronache non hanno mai riportato notizie di preoccupazioni da parte di governi, istituzioni e artigiani sull’eventualità che attività di tale ingegno e bellezza potessero togliere lavoro alla popolazione e creare difficoltà all’economia mondiale o locale. Con l’era industriale si pensò giustamente di intensificare l’uso delle macchine e di relativi automatismi, per alleviare sempre più la fatica fisica, ma soprattutto forse anche quella psichica, dell’uomo.
Precisiamo che l’era industriale non è cominciata a fine ‘800, come quasi tutti credono, visto che le filande di cui si parla ne “I Promessi Sposi”, che tutti sanno essere ambientato durante la pestilenza a Milano del 1620, comportavano già l’uso di mezzi meccanici molto elaborati, azionati da numerosi operai per ottenere grandi quantità di prodotto, in molti Paesi d’Europa.

Cosa è più importante fare?
Del resto, piccole fabbriche di tessuti sono già segnalate nell’antica Roma, con largo impiego di schiavi, ed è chiaro che le attività di tessitura dovettero nascere quando l’uomo primitivo, da lungo tempo coperto da pelli di animale a pelo lungo, scoprì che dal pelo di certi animali, debitamente intrecciato, si ricavava la “lana”, e dalla lana le pezze di tela con cui confezionare “abiti” più comodi del vello puzzolente degli animali. Ma è pur vero che con l’avvento della Ferrovia e, qualche decennio più tardi, dell’Automobile (all’inizio il nome italiano era maschile) fu indispensabile organizzare la produzione in serie e la catena di montaggio di migliaia di mezzi rigorosamente uguali, che per di più erano fatti di materiali molto pesanti per assicurare la robustezza e l’impiego in ambienti che oggi si chiamerebbero “ostili” (ancora più pesanti e voluminosi erano i mezzi bellici, di cui sempre si finge sempre di dimenticarsi, anche se i proiettili di cannoni, per esempio, erano ormai manufatti complessi e non semplici sfere di pietra o di bronzo, e che quindi richiedevano un intervento umano “specializzato”). A proposito di “specializzazione”, uno dei mestieri più antichi, dopo quello del “guerriero”, che pure è sempre stato “carne da macello”, è quello del minatore, che richiede relativamente poca intelligenza, ma notevole fatica, e comporta enormi pericoli, sia per i crolli delle gallerie delle miniere, sia per gli allagamenti imprevisti, che per le fuoruscite di gas letali, tanto da poter affermare che il maggior numero di morti sul lavoro è da millenni costituito dai minatori, cosa che però attirava poco l’attenzione dei benpensanti, essendo il lavoro eseguito da schiavi o da detenuti e deportati: tutto questo per dire che i primi Umani che dovrebbero essere sostituiti da macchine sono proprio i minatori (ai guerrieri ci si pensa già da un paio di secoli, a scapito però dei civili involontariamente coinvolti nei conflitti). Ritengo sia comunque indispensabile (irrinunciabile) e prioritario stabilire graduatorie delle attività umane (non necessariamente lavorative o belliche) pericolose e faticose; altro che “dignitose”, come dice il Papa! (e i pappagalli che lo applaudivano). Un altro buontempone in TV ha sentenziato: “Fai sempre il lavoro che ti piace; non ti accorgerai mai della fatica!”.

Il Paese di Bengodi degli ignoranti
E chi può fare il lavoro che gli piace? Solo chi non avrebbe bisogno neanche di “lavorare”: gli altri – perfino io che sono ingegnere, e quindi in un certo senso un possibile “creativo” – devono mettersi a fare solo quello che gli consentono di fare. Un altro ancora è venuto fuori con la proposta di ridurre l’orario di lavoro da 36 a 15 ore settimanali, occupando le ore restanti con attività culturali e ricreative (che darebbero nuovi posti di lavoro agli “intrattenitori”: la Terra intera diventerebbe un insieme di Paesi di Bengodi, dove gli ignoranti passerebbero improvvisamente dalla condizione di schiavi lavoratori a quella di schiavi saltimbanchi, ma sempre ignoranti). Ci si decida quindi, senza discussioni di tipo economico e finanziario, ma solo sanitario e sociale, a sostituire le persone umane, che svolgono ora questi lavori, con macchine corrispondentemente robuste e intelligenti. Ognuno sa che questo già avviene (da non troppo tempo, tuttavia) per le catene di montaggio automatizzate dei mezzi di trasporto, automobili e motociclette, soprattutto, che però sono state concepite automatizzate non tanto per alleviare la fatica, il rischio e lo stress degli operai, quanto per aumentare produzione e profitti degli industriali: in pratica da questo punto di vista siamo ancora al punto delle scene tragicomiche del famoso film di Chaplin “Tempi Moderni”, datato sorprendentemente 1936, quando già molto si sarebbe potuto fare nel campo dell’automazione (e in effetti nello stesso film se ne vede qualche esempio, come il caporeparto che sorveglia gli operai su un grande schermo televisivo e con un comando a distanza regola la velocità o arresta il nastro trasportatore coi pezzi da montare, oltre all’esilarante e improbabile macchina che imbocca l’operaio per abbreviare la pausa pranzo).

Strumenti meccanici
I primi anni del “terzo millennio” sembrano presentare le condizioni tecnologiche (e, per quanto possibile, commerciali) più favorevoli allo sviluppo contemporaneo di hardware (la parte “materiale”, cioè quella “solida”, di dimensioni gigantesche o micrometriche) e software (la parte di programmazione e automatismo, fatta di segnali elettrici che attraversano cavi o, meglio, di messaggi elettromagnetici che fluttuano tra le parti materiali) di macchine di ogni tipo (corpi solidi in movimento controllato e controllabile), anche così piccole da percorrere i vasi sanguigni di un essere umano; le quali macchine, lungi dal comportarsi come esseri viventi, sono semplicemente “strumenti meccanici” (ossia attrezzature) che, debitamente programmati e protetti da sistemi di sicurezza progettati da cervelli umani, possono prendersi carico dei compiti più faticosi e rischiosi per la vita umana, o, in alternativa, dedicarsi alle attività più “umili” o “sporche” o comunque scomode o difficoltose: insomma quello di cui si sente maggiormente la mancanza soprattutto quando è ormai troppo tardi, come nel caso di eventi naturali più o meno disastrosi, dallo tsunami in Giappone del 2011 al terremoto in Italia del 2016: l’uomo è presente e disponibile fino al sacrificio della propria vita, ma manca fisiologicamente di alcuni “attrezzi” indispensabili per salvare altre vite e che la moderna tecnologia gli potrebbe fornire.
Ogni altra definizione di “automazione utilitaria” (o “robotica”, col suo sottoprodotto “domotica”) è pretestuosa, presuntuosa, inappropriata, errata e tipica della più bassa e superstiziosa fantascienza, cioè di quelle qualità negative che dominano i cervelli bacati, ma sperabilmente recuperabili al buon senso, di “civiltà” quali quelle statunitensi, giapponesi e in parte nordeuropee (e relative popolazioni di altri continenti da esse controllate).

Il robot-badante che insegue il vecchietto
Come derivati di queste benefiche macchine pseudo intelligenti si potrebbero già anticipare, specialmente a scopo di ricerca, modellistica e sperimentazione, gli inutili “giocattoli” (dall’aspetto inesorabilmente umanoide) che soprattutto il Giappone si sforza di lanciare sul mercato, come la macchina che pulisce i pavimenti e va a collegarsi da sola alla presa di corrente quando la batteria è scarica, o l’infermiera-badante che insegue il vecchietto smemorato per somministrargli i medicinali nelle ore della giornata prescritte dal medico, o i giocattoli veri e propri per bambini che esistevano già nel secolo scorso sotto forma di bambole parlanti e piangenti (e di trenini elettrici, da utilizzare su stupendi “plastici”); tutt’al più ad esse si potranno aggiungere i “droni” e le mortifere “playstation” e altre diseducative diavolerie con cui si tortureranno i poveri bambini del futuro, che certamente nasceranno con uno “smartphone” impiantato sottopelle, e verranno allevati come animaletti di lusso, per vivere essi stessi come gli attuali ambientalisti e animalisti ipocriti. Se c’è da prefigurare una fine prossima dell’umanità, è così che la dobbiamo immaginare (se non cambierà il modo di pensare delle “civiltà” che ho citato), e non a causa dell’inquinamento, del surriscaldamento e della sovrappopolazione, con cui conviviamo da quasi due secoli; e avremmo convissuto anche agiatamente se alcuni governanti pazzoidi (o piuttosto insaziabili di potere) non avessero scatenato guerre mondiali e locali.
Chiarito ciò, parliamo pure di “robot” e di “intelligenza artificiale”, ma in modo positivo, annullando sul nascere l’insinuazione superstiziosa che queste novità (oggi si dice “innovazioni”) sostituiranno l’attività di milioni di esseri umani, privandoli di quel “privilegio che conferisce dignità”, che è il lavoro. Il Papa ha pronunciato questa frase a metà marzo a proposito del licenziamento dei dipendenti di Sky che manifestavano contro i “padroni” (circostanza prontamente censurata da tutti i notiziari, eccetto “Striscia la Notizia”); così facendo si è messa in bocca una grossa sciocchezza al Papa, un figlio del Sudamerica, dove perfino i bambini sono abbandonati per strada e campano facendo “lavori” non solo degradanti, ma specialmente disonesti, alle dipendenze di sfruttatori senza scrupoli, come se ignorasse che c’è lavoro e lavoro e che almeno la metà dei presunti lavoratori nel mondo sono schiavi e prostituti o semplicemente sottopagati, e che quelli che godono di maggiore “dignità” sono i disoccupati che campano a spese di parenti, amici e opere benefiche.

Progettare un robot non è come pettinare le bambole
Ecco dunque che gran parte dei lavori “indegni” potrebbero e dovrebbero essere eseguiti da robot, cioè da macchine automatiche, con un livello di “intelligenza” adeguato. E un’altra cosa che un Papa non è tenuto a sapere, a meno che non ne voglia ricavare un’enciclica (anche sulla Laudato sì quante sciocchezze gli hanno fatto dire, a cominciare dal titolo), ma che devono imparare politici, burocrati e giornalisti (e sociologi, ovviamente), anche se “bocconiani”, è che progettare e costruire un robot non è come “pettinare le bambole”, ma richiede una formazione scolastica e poi un addestramento lavorativo di livello medio-alto, a seconda del risultato che si vuole ottenere. E’ vero che i robot-giocattolo sopra citati, molto più dei pannelli solari e delle pale eoliche, già si comprano al supermercato con marchi cinesi, giapponesi, indiani o coreani, ma nulla vieta di costruirseli “in casa”, proprio per l’importanza del contenuto scientifico e tecnologico di tali macchine. Quindi la sentenza che ho sentito pronunciare in TV da un politico, ossia che milioni di Italiani e Europei resteranno senza lavoro a causa dell’avvento dei robot, e che l’economia risentirà della necessità di acquistare le macchine in Asia, è la tipica asinata dei “bocconiani”, che non hanno mai provato a maneggiare un cacciavite o un saldatore (o meglio, hanno provato, ma hanno deciso che è molto meglio e più redditizio combinare affari al telefono) e non si rendono conto di quanto la ripresa dell’industria meccanica, associata a quella informatica, farebbe bene alla nostra “civiltà” soprattutto dal punto di vista culturale e sociale. E’ giusto e doveroso affrancare i poveri minatori sardi, belgi, tedeschi e inglesi dalla schiavitù delle miniere di carbone, ma ancor meglio è sostituire la disoccupazione, che ne è conseguita, con un’attività di alto contenuto intellettuale e scientifico. La storia anche recente insegna che l’eliminazione delle carrozze e dei tram a cavalli ha lasciato sì senza il vecchio lavoro gli stallieri, i maniscalchi e i vetturini, ma ha creato innumerevoli opportunità per nuove specializzazioni ingegneristiche e tecnologiche di valore intellettuale molto superiore a quello che è stato abbandonato (e, andando indietro nel tempo analizzando i progressi tecnico scientifici. si potrebbero portare centinaia di questi esempi, che a tutti i normali esseri umani sono apparsi del tutto naturali: per esempio, gli antichi scultori hanno dovuto inventare il trapano per scolpire i ricci delle statue ellenistiche, e qualcuno si è rovinato le ossa delle spalle per fare forza sull’impugnatura, ma, anziché diminuire, aumentarono il numero degli scultori e la quantità e la bellezza delle statue che producevano).

GigaBalle
Perché mai l’avvento della robotica “seria”, quella fatta per ottenere prodotti e effetti veramente utili, dovrebbe oggi invertire questa tendenza è veramente una logica da “Bocconiani”. Perciò, ripeto, affiancare i robot (stupidi e servili) alla creatività umana non potrà che produrre effetti benefici (se il robot e relativo software saranno ideati “a km zero” e non in Thailandia per essere venduti in Italia) e, per la gioia dei finanzieri, i prodotti di “consumo” saranno più appetibili e numerosi. Tornando all’esempio dei videoregistratori a nastro, non ci fu utente di televisione che non ne comprasse almeno uno (i più ne avevano due), ma nemmeno un quarto di loro li utilizzarono mai dopo il primo laborioso collaudo. Così come adesso quasi tutti cambiano il fornitore di telefonia e di internet per possedere la banda larga, la fibra ottica con 1 GBit al secondo, non sapendo che cosa sia il bit, né il Mega, meno ancora il Giga e a malapena il “secondo”; idem per i Gigabyte di dati associati a un abbonamento di telefonia cellulare: costano poco o niente (e non è vero), ma averli, senza averne bisogno, significa stare al passo coi tempi per non fare brutta figura confrontando i propri attrezzi con quelli dei propri amici ugualmente ignoranti.
Così, riepilogando: i robot, macchine semi intelligenti, guidate dall’uomo mediante programmazione (compresa quella per autodiagnosi e autoriparazione)
telecomando, sensoristica dedicata, sorveglianza, sono attrezzature di utilità incalcolabile che estendono le capacità creative e realizzative della fisiologia umana; la loro ideazione, progettazione, fabbricazione e attivazione sono attività non banali, che impegnano a fondo l’organismo umano sia fisicamente sia intellettualmente; il loro ausilio si estende dall’estremamente piccolo e delicato all’estremamente grande e robusto (di qui la necessità di suddividere l’industria robotica in numerose categorie classificabili sia rispetto all’hardware sia rispetto al software richiesti); la loro realizzazione (intendendosi con ciò le attività di scelta di materiali, assemblaggio, integrazione hardware e software, collaudo preliminare, con eventuali modifiche, messa in opera e collaudo finale, conduzione, manutenzione, aggiornamenti e riparazioni e, a fine vita, smantellamento con eventuale riciclaggio), richiede da parte di chi esegue tali operazioni, livelli di istruzione e manualità spesso anche molto elevati, senza dubbio superiori a quelli attuali richiesti per costruire mezzi di trasporto addirittura senza guidatore; di conseguenza la quantità di studio e di manodopera ad essi dedicati potrebbe addirittura superare quelli che si teme vadano a sostituire e ad azzerare; e, non prefigurandosi una possibilità di saturazione della richiesta, il lavoro creato da questa nuova industria sarà superiore e più qualificato (cioè “dignitoso”) di quello che sostituirà.

La rivoluzione dell’intelligenza artificiale è un falso problema
Tutto ciò a patto che non si confini la realizzazione di tali “attrezzi”, la cui richiesta sarà immensa, a un numero limitato di Paesi del mondo: infatti, così come, bene o male, si è riusciti a fare in modo che quasi tutti i Paesi abbiano la propria fabbrica di automobili (per parlare di un “bene” di uso ormai universale), non si vede perché i robot, come del resto le navi o le perfino le bombe, il cui volume e la cui diversificazione si prospetta molto maggiore di quella dei mezzi di trasporto, dovrebbero esser monopolio di un numero limitato di Paesi, ai quali solamente andrebbe il vantaggio dell’aumento di occupazione. Sarebbe auspicabile quindi che non si ripetesse l’errore già commesso per risolvere il problema energetico per il quale il grosso dei pannelli solari, per esempio, viene prodotto in Cina e in India, dove, come è noto, parte della produzione è affidata ai bambini, il che è molto più immorale che creare (presunta) disoccupazione nei Paesi Occidentali; e che i nostri “professori” capiscano che l’avvento della robotica avrà effetti positivi anche sull’economia, purché anche lì non si pretenda di realizzare grossi guadagni grazie al più basso costo della manodopera dei Paesi Asiatici e Africani. Del resto, mentre tali Paesi potranno continuare a fare a meno dei pannelli solari, e quindi impiantarne le fabbriche per l’esportazione in Occidente, dell’automazione intelligente avranno bisogno anche loro, se non vorranno raggiungere livelli di degrado (nelle classi povere, naturalmente) ancora peggiori di quelli attuali. La vita di un robot, in ogni caso sarà sempre più corta della vita lavorativa delle persone che si teme che vada a sostituire (contrariamente alla vita di un reattore nucleare, per esempio, che dura anche 60 anni) e perciò sarà sempre più alta la richiesta di personale, per costruire e alla fine smaltire un robot, della quantità stessa delle macchine intelligenti. Si convincano quindi i nostri futuri ignorantissimi governanti “bocconiani” o piuttosto pseudo politologi, che la “rivoluzione dell’intelligenza artificiale” è un falso problema (che nasce ora a fini prevalentemente elettorali, per creare panico in certe classi di lavoratori) e che la robotica, se si svilupperà con criteri scientifici e ingegneristici onesti, porterà enormi vantaggi globali, sempre che si riesca a farla uscire dalla sfera del semplice giocattolo (il tipico robot veramente diffuso in questi anni è la playstation) e lo si faccia diventare lo strumento fondamentale per il benessere e la sicurezza sul lavoro delle popolazioni già civilizzate, ma soprattutto anche di quelle in via di sviluppo, prospettiva che non è mai esistita invece per la rivoluzione energetica (che ha scatenato il fanatismo che circonda la paura della catastrofe climatica, e solo nei Paesi cosiddetti civilizzati).
Personalmente auspico che ci si pongano soprattutto obbiettivi immediati di sicurezza e di benessere fisiologico: non si dovrà più sentir parlare di minatori sepolti dal crollo di una galleria, nè di operai avvelenati pulendo cisterne, né di tecnici “nucleari” irraggiati a morte per i rarissimi ma micidiali incidenti nelle centrali cosiddette “atomiche”. In seconda battuta si potranno e dovranno sviluppare strumenti di diagnostica e chirurgia medica, andando ad osservare e eventualmente operare parti del corpo oggi ancora inaccessibili alla grossolana struttura dell’osservatore scientifico e del chirurgo umano; che tuttavia dovranno sempre essere “alla guida” dei nuovi mirabolanti strumenti miniaturizzati;  sono anni che si fanno grandi progressi in laboratorio con le nanotecnologie: è tempo che tali progressi vengano allo scoperto sotto forma di strumentazione medica o riabilitativa di uso quotidiano e, ovviamente, sicuro.

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