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Ma quale e quanta scienza i medici applicano ai pazienti?

di Giusto Buroni – L’età più o meno avanzata comporta, come è noto, una quantità di “accidenti” che meritano di essere raccontati e analizzati a beneficio di chi non vi è ancora incappato: così può darsi che chi ne è informato riesca a superare più facilmente un certo numero di queste difficoltà per prepararsi meglio a sopportare l’ultima, che inevitabilmente non avrà rimedio.
A tale scopo ho raccontato a suo tempo in questa rubrica le mie vicissitudini per scampare a due infarti e a un raro tumore maligno e mi accingo ora a descrivere l’ultima avventura, consistente nel superamento di un presunto “ictus cerebri”, ovvero un “emboletto” al lobo destro del cervello, come dicono i medici per non allarmare il paziente e i suoi parenti.

Dall’ictus sono uscito vivo
Un sabato notte della scorsa primavera, verso le due (i vecchi “computer addicted” fanno sempre tardi) mi accingevo a andare a dormire, quando mi accorsi di avere perso la sensibilità alle mani e agli avambracci: toccandomeli, avevo la sensazione di toccare un’altra persona. Giusto il tempo di avvertire mia sorella, e anche la parola comincia ad arrochire e a confondersi. Dall’altra parte del telefono, al 118 capiscono subito che è un ictus (io no) e in meno di un quarto d’ora sono debitamente punturato e dissanguato al Pronto Soccorso del più vicino ospedale e costretto a firmare la liberatoria per una TAC con Mezzo di Contrasto (a cui sono allergico, ma anche per questo, a quanto pare, dispongono di un antidoto), subito seguita da trombolisi, che non avrebbe effetto se praticata tre ore dopo l’insorgere dei sintomi. In seguito, la solita routine della terapia intensiva in un reparto molto più affollato rispetto al tempo delle mie due disavventure al cuore quasi 12 anni fa. Naturalmente tutti “bravissssimi”, dottori e infermieri, ma più che altro se lo dicevano da soli perché i pazienti ancora coscienti (pochi) non ne erano troppo convinti; ma bisogna riconoscere che negli ospedali delle grandi città è impossibile immaginare che si possa fare molto di meglio. Comunque è stata un’esperienza dura e debilitante, con perdita di tre chili, dell’ottimismo e della voglia di uscire dal letto. Eppure una ripresa c’è stata, come spero si deduca dal fatto che dopo sei mesi scrivo ancora senza troppi errori.

A quando l’eventuale ricaduta?
Come specifico souvenir mi è rimasta l’insensibilità alla punta del dito mignolo della mano sinistra. In tutto si è trattato di tre giorni di terapia intensiva e una settimana di “osservazione” in reparto (Neurologia), con lettera di dimissione finale e appuntamento per visita di controllo dopo ben quattro mesi, secondo l’assurdo protocollo vigente in questi casi (alle mie rimostranze la risposta è stata “in caso di ricaduta precoce, si rivolga al Pronto Soccorso e provvederemo”): a questo punto ero in preda al panico perché, come sempre, non conoscendo per niente le cause dell’incidente, mi disperavo al pensiero di non sapere come comportarmi per allontanare il rischio di ricaduta. Dodici anni fa nelle stesse condizioni (trombolisi, ma per il cuore e non per il cervello), e nel medesimo rinomato ospedale, la ricaduta c’è stata dopo 15 giorni; fortunatamente, anche se non ne ho capito il motivo, questa volta mi è andata meglio.

La visita di controllo
Ma i neurologi avevano fretta di liberarsi di me: infatti la diagnosi alla dimissione fu: “lieve, ma distribuita, sofferenza all’emisfero destro del cervello, con origini probabilmente cardiache”, per cui mi si rimandava ai cardiologi che mi conoscono, lasciandomi scoperto per oltre quattro mesi dal punto di vista neurologico.  Ho chiesto che mi si tenesse sotto controllo almeno per e-mail (all’Istituto dei Tumori lo fanno egregiamente), ma, a parte una gentile telefonata del responsabile per intimarmi di non insistere, li ho persi completamente di vista. La terapia prescritta alla dimissione ricalca quella che seguivo da 12 anni per i postumi degli infarti, con le sole due differenze di triplicare la dose di Aspirinetta (fluidificare al massimo il sangue per prevenire i trombi) e di aggiungere vitamina B12 per ridurre il rischio di emorragie. La “guarigione (i sintomi dell’ictus erano quasi scomparsi dopo un’ora dalla somministrazione della trombolisi) è stata accertata con una nuova TAC al cervello, questa volta senza mezzo di contrasto, ma, dato che come la prima anche la seconda non ha mostrato lesioni a carico del cervello, si è passati alla terribile Risonanza Magnetica Nucleare (suoni fastidiosissimi attraversano la testa per quasi un quarto d’ora, ai quali attribuisco le successive vertigini, che solo dopo sei mesi accennano a diminuire). Mi dicono che le macchioline che appaiono sul lobo destro del cervello durante la RMN non siano esattamente una prova di lesioni significative; inoltre non mi convince il fatto che le macchie siano solo a destra, per due motivi: l’insensibilità degli arti superiori era bilaterale e i disturbi della parola mi risulta siano dovuti a lesioni della parte sinistra del cervello. Per far tornare i conti, il medico del Pronto Soccorso (che mi ha preso poi in carico fino alla dimissione) ha preteso di avere visto un comportamento anomalo del solo braccio sinistro e non ha dato importanza ai problemi della parola: mi sembra una mistificazione grave, ma chi sono io per smentire le affermazioni di un medico, e di un tale ospedale? Alla fine ho ottenuto una visita di controllo dopo dieci giorni, ma “per punizione” la successiva è stata fissata dopo otto mesi anziché quattro.

Il pronto Soccorso e la terapia intensiva
Conviene spendere due parole sulle carenze delle infrastrutture, partendo dal Pronto Soccorso, che in tutti gli ospedali soffre di affollamento e di carenza di personale, soprattutto paramedico. Ciononostante il “triage” all’ingresso (riconoscimento del problema e smistamento dei malati) è tempestivo ed efficiente, così come il reperimento degli specialisti, anche a notte fonda e in pieno week-end. Esami e risultati arrivano prontamente e gli interventi d’urgenza sono eseguiti, spesso in condizioni precarie. Si passa poi alla terapia intensiva, che nel caso di ictus si pratica in uno speciale reparto, regolato da norme internazionali, chiamato “stroke”, un camerone “open space” dove sono letteralmente ammassati una dozzina di pazienti, in piena promiscuità di sesso, età e condizioni di salute, con illuminazione insufficiente e assoluta impossibilità di chiamare aiuto (nessuno dei letti è dotato di un campanello), se non urlando il nome di un infermiere (o una infermiera) in servizio; unica agevolazione: i nomi di tutti i paramedici cominciano con la “A” e, sapendolo, i pazienti che ancora parlano hanno buona probabilità di chiedere aiuto se gridano “Anna” o “Antonio” (sembra uno scherzo, ma ho testimoni che possono confermare). A parte ciò la strumentazione di monitoraggio delle funzioni principali è completa ed efficiente per ogni letto e fa capo a una grande centrale di controllo dove è (quasi) sempre presente almeno un infermiere in grado di valutare situazioni di allarme e disporre gli interventi; se però si verificano casi di epilessia o sonnambulismo, per esempio, l’aiuto dei vicini di letto ancora vigili è indispensabile.

L’autostima
Questa situazione obbliga il paziente vigile (che comunque non può spostarsi da letto, pena la perdita del monitoraggio) a sacrificare il sonno, ma gli offre grandi opportunità di rivalutare l’autostima. Descrivevo così a un amico, che ne è rimasto molto impressionato, lo stato dello “stroke”: “Grazie per la gentile intenzione di venirmi a trovare in ospedale, anche se te lo avrei sconsigliato a meno che non avessi un costume da Padre Cristoforo che va in visita a Don Rodrigo nel Lazzaretto. Il reparto chiamato “stroke”, obbligatorio negli ospedali di tutto il mondo in cui si voglia praticare la trombolisi per curare l’ictus, non è diverso dagli antichi “hotel Dieu” francesi e dai lazzaretti di 400 o 500 anni fa, addirittura con lo stesso sistema di tendaggi a “coulisse” che permettono di separare gli uomini dalle donne nei brevi momenti di intimità o di isolare gli agonizzanti e gli epilettici, questi ultimi debitamente legati mani e piedi, ma non molto strettamente. Il reparto stroke è dunque un “open space” di una dozzina di letti alla rinfusa, nessuno dei quali dotato di campanello: chi sta meno male è tenuto a imparare il nome degli infermieri  e a chiamarli a gran voce, prima che qualcuno cada dal letto o strangoli il vicino, o si strangoli da solo. Dodici anni fa ero stato in terapia intensiva cardiologica, ma non ricordo un inferno del genere, anche se una delle notti l’ho trascorsa nudo (era fine novembre) in una stanza in cui ero collegato a svariati monitor, ma per ore non è passato nessuno a vedere se fossi in ipotermia; ricordo che il campanello c’era, ma non riuscivo a raggiungerlo, avendo tubi e aghi in tutti i buchi possibili: riuscivo solo a strofinare fra loro i piedi per sentirmi vivo. Il mattino dopo, abbozzando un reclamo, mi risposero: “poteva chiamarci”: eppure ero intubato naso e gola e, non trovando il campanello: avrei solo potuto strappare qualche tubo o cavo”.
In questa occasione invece la quarta notte fui svegliato alle due e trasferito nel reparto Neurologia (camera a due letti con bagno, ma senza monitoraggio e neanche un cane che di notte desse un’occhiata per vedere se gli occupanti fossero ancora vivi) per lasciare il posto a un poveraccio che aveva bisogno del mio letto, dotato di monitoraggio continuo, mentre io “cominciavo a star bene”.

L’amnesia dopo aver fatto l’amore
In Reparto, nonostante la camera a due letti, ancora promiscuità (il parente della mia compagna di stanza, ultraottantenne tracheotomizzata, esclamò, vedendomi: “masculi e femmene nell’istessa stanza: non è cosa buona!”); e nessun rispetto della privacy (all’arrivo del mio compagno successivo, il medico lo visitò in mia presenza e gli chiese: “Leggo dalla scheda che dopo un “rapporto” con la moglie ieri mattina lei è stato colto da totale amnesia. Me lo conferma?”; e il malcapitato rispose: “Non credo, non è stata una prestazione atletica, ma una cosa normale, di routine”). Inoltre l’acqua del bagno per tutta la settimana scrosciò giorno e notte impedendoci di dormire, nonostante i miei vani tentativi di ripararlo senza attrezzi e le segnalazioni a medici e infermieri. Le suppellettili della stanza, del resto pulita, dimostravano un’usura corrispondente all’età dell’ospedale (Era Fascista).
Dopo dieci giorni così, come si fa a rispondere alla domanda “come va?”: qualunque cosa è meglio che stare lì, perfino stare a casa da solo con un telefono a portata di mano e il possibile, ma non certo, intervento di una persona fidata entro tre ore. Le prime due settimane a casa sono state tormentate dalle vertigini: bastava muovere leggermente la testa e tutto girava molto rapidamente per almeno un minuto; poi ci si fa coraggio, si chiudono gli occhi, e tutto si ferma. Non si conosce un rimedio meno scioccante. In queste condizioni, uno si aspetterebbe una buona visita medica almeno ogni mattina e invece bisogna attendere quattro o anche otto mesi. Ma alcuni pazienti sono meno esigenti o più coraggiosi di me e segnalano ai giornali il trattamento di “eccellenza” ricevuto in situazioni analoghe alla mia. A una di queste lettere ho replicato che, mentre ” … concordo sul favorevole giudizio sul personale medico e paramedico impegnato in un estenuante servizio, non condivido la qualifica, data dai pazienti giustamente lieti di essere scampati, di “eccellenza” del sistema sanitario, constatando, oltre all’insufficienza scandalosa delle infrastrutture, la mancanza di interesse nella causa delle singole malattie e nel decorso dopo il debilitante trattamento. In generale, a meno che non sia stato travolto da un camion, il paziente viene dimesso ignorando la causa del suo problema e così non sa come comportarsi per prevenire ricadute e recuperare la propria efficienza.
A questo sarebbe preposto il “medico di base”, che tutti sappiamo di quali povere “basi” sia dotato. Se invece l’ospedale indagasse sulle anamnesi di tutti i pazienti e poi li seguisse nella convalescenza e riabilitazione, dotandosi così di una formidabile statistica da condividere con appositi centri di ricerca, scoprirebbe le cause (e le prevenzioni) dell’insorgenza di tante diffusissime e letali malattie, cancro compreso, invece di appellarsi sempre e soltanto a “familiarità”.”

Problemi … di famiglia
Alla familiarità, per esempio, sono stati attribuiti tutti i miei problemi, che sono belli “tosti”: infarti, tumore maligno, ictus ischemico, perfino le cataratte, nonostante nessuno dei miei parenti, stretti o lontani, abbia portato gli occhiali né abbia avuto problemi cardiaci, salvo rimangiarsi tutto dopo presentazione di prove e referti. Ma un poveretto tanto vecchio da non potersi spiegare troverà certamente scritto sulla cartella clinica: “causa: familiarità”. A nessuno viene voglia di scoprire le cause vere, che permetterebbero di attivare una formidabile prevenzione. Io sogno sempre che qualche Ministro della Sanità prenda sul serio le conclusioni di questa lettera e metta in atto i provvedimenti suggeriti. Ma, tanto per cominciare, la lettera non è stata pubblicata, neanche dal Corriere della Sera che riempie l’edizione domenicale con articoli astrusi, che non sono certo sufficienti a correggere la mentalità poco scientifica dei medici di tutto il mondo, ma solo ad illudere i pazienti. E, a proposito, mi farebbe tanto piacere constatare un giorno che giornali e TV la smettessero di lodare i “personaggi” che “combattono coraggiosamente la malattia e la vincono”. Io non saprei neanche da che parte incominciare a farlo e, per quello che posso capire di medicina, al giorno d’oggi (non diversamente da ieri) tutto dipende dalla fortuna, e di approccio scientifico non si vede l’ombra: qualche buon risultato si può apprezzare nella chirurgia (anche se spesso si taglia più del dovuto, o addirittura l’opposto del dovuto), ma il resto è una “frana”. A proposito: ho letto che l’Aspirina, ovvero l’acido acetilsalicilico, l’ha scoperta (“brevettata”, perché già da tempo la si conosceva) nientemeno che Ippocrate dalla corteccia del salice: non ne abbiamo fatta molta di strada in due millenni e mezzo!

L’ignoranza dei medici
E infatti, ogni volta che li vedo all’opera, non posso non pensare all’ignoranza dei medici, che io non sono d’accordo sia compensata dal loro comportamento amorevole e solerte o da gentilezza e efficienza: non è con questo che si scopre la causa della malattia, specialmente oncologica, né la cura più adatta (e sarebbe meglio la prevenzione, ma neanche se ne parla, specialmente per noi anzianotti). Fra i miei amici e parenti conosco un sacco di signore (e alcuni signori) che sono in “cura”, spesso privatamente, per presunte disfunzioni tiroidee, ma la cura consiste nel tenere equilibrata la quantità di ormoni tiroidei tipica della donna e dell’uomo; alle cause della disfunzione non si interessa nessuno, e tanto meno alla sua origine. Ora, anch’io ho una tiroide visibilmente malata da 44 anni, che doveva portarmi a morte sicura circa 40 anni fa e di cui ora (ma “ora”) hanno cambiato diagnosi (disturbi meccanici e estetici per il gran gozzo) e prognosi “per non aggravare cuore e cervello, “teniamola sotto controllo” – ma che vuol dire?- e non operiamo”.

Sangue fluido
E il nuovo ictus? “Ne riparliamo tra otto mesi”: nel frattempo, nessuna medicina o trattamento, e sentire i cardiologi. E i cardiologi? “Le hanno già aumentato la fluidificazione del sangue; più di così non si può fare; vediamo il cuore fra sei mesi” (neanche pagando accettano di vederlo prima). Riabilitazione dopo l’ictus? “Due settimane di riposo assoluto, poi rivolgersi ai cardiologi”. E anche sulla riabilitazione i cardiologi non hanno suggerimenti specifici; si noti che dopo i miei due infarti fui sottoposto a un lungo periodo di ricovero e riabilitazione in ospedale, e in seguito per cinque anni sono stato convocato per sei settimane e tre giorni settimanali in day hospital (pranzo alla mensa dell’ospedale) con fisioterapia, visite, analisi e addirittura conferenze di specialisti. Da quando la regione Lombardia, come del resto le altre regioni d’Italia, ha tagliato i fondi agli ospedali, l’utilissima consuetudine è stata cancellata, con tanti saluti alla campagna per la prevenzione dell’infarto. Il bello è che, dato che non siamo (ancora) morti, dobbiamo anche ringraziare i medici; per non avere trovato niente e non avere spiegato niente, o niente di più di quello che possiamo trovare noi stessi, che invece dovremmo fornire loro, se a loro interessassero, le informazioni e gli indizi per risolvere i problemi.
E in alternativa, come ci consolano? Adesso con me è facile: “di qualcosa si deve pure morire; si rende conto di avere 77 anni?”. E mi viene in mente che è la frase che mi ripete da trent’anni il mio parrucchiere-filosofo.

Sei mesi fa finalmente, con mia grande sorpresa, un giovane oncologo ha mostrato curiosità e interesse quando gli ho raccontato di avere maneggiato da giovane materiale radioattivo senza le dovute precauzioni; tuttavia è stato un attimo; la mia visita era alla fine, un altro paziente aspettava il suo turno, e non se ne è parlato, né se ne parlerà più: è stata la prima e unica volta in tutta la vita, nonostante io mi presenti sempre, per farmi bello, come “ingegnere nucleare”. Neanche a questo mi serve avere studiato vent’anni!
E allora mi chiedo come sempre se non hanno vergogna a vendere le azalee a favore della ricerca contro il cancro, se non hanno la minima idea di che cosa ricercare, e soprattutto di come ricercare.
Spero che qualcuno mediti sul fatto che praticamente gli unici provvedimenti che si sono presi finora per prevenire il cancro consistono nell’applicare “principi di precauzione”, praticamente a furor di popolo e non in base a sospetti di rischio convalidati scientificamente (recentemente sono tornate alla ribalta le radiazioni emesse dai cellulari, che però, a detta dei telegiornali, diventano innocue già a un centimetro di distanza dalle orecchie).
Buffonate, risultanti da ricerche della Comunità Europea, per giunta.

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