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L’Alta Fedeltà è morta

di Giusto Buroni – L’Alta Fedeltà è morta di morte violenta e dopo una lunga agonia, tanto lunga da essere quasi ignorata, assicurando l’impunità agli assassini.
Come per molte altre “buone intenzioni” (o illusioni?) del XX secolo, anche la storia dell’Alta Fedeltà può considerarsi iniziata alla fine della seconda Guerra Mondiale, quando si cominciò a disporre di tempo e mezzi per rendere più piacevoli (e fruibili da un vasto pubblico) molte realizzazioni tecniche che la guerra aveva frettolosamente sottratto al godimento della gente comune, dirottandole verso impieghi bellici. I dischi stampati su doppia facciata avevano da tempo rimpiazzato i primitivi rulli cilindrici cerati dei fonografi di Edison e si cercava di sfruttare a fondo i vantaggi del vinile, anzitutto in termini di tempo di registrazione e di conservabilità, ma poi anche di fedeltà della registrazione e riproduzione, risolvendo i problemi di:

  1. riduzione del rumore di fondo provocato dallo strisciamento della puntina di lettura nel solco contenente l’informazione sonora;
  2. effetto sonoro almeno stereofonico, per sollecitare entrambi i sensori uditivi, destro e sinistro, come se l’ascoltatore fosse molto prossimo o addirittura nel mezzo dell’orchestra;
  3. riproduzione di tutte le armoniche di ogni singolo strumento, ossia riproduzione del “timbro” di ogni strumento, o voce, presenti.

Tutte e tre le caratteristiche sono, in modo più o meno rilevante, influenzate dall’elettronica (filtri e amplificatori), dai materiali utilizzati e dalle loro forme (capacità di risuonare con la medesima resa di volume a tutte le frequenze, più o meno come fa la “chiocciola” dell’orecchio).

Ecco l’Hi-Fi
A parte la stereofonia, che era l’effetto più vistoso per un pubblico non troppo esigente e raffinato, non si pensava, all’inizio, di simulare anche gli effetti dell’ambiente in cui agivano orchestra e cantanti e dove si prometteva agli ascoltatori di credere di trovarsi: ci si limitava a proporre di sistemare l’impianto di riproduzione musicale nella posizione normalmente occupata da orchestra e cantanti reali in un ambiente in cui lo si volesse ascoltare, con gli spettatori disposti nelle zone ad essi riservate; solo quando era forse troppo tardi si studiarono e produssero anche “simulatori di ambiente”, tali che in qualunque sito non disturbato da rumori esterni, per esempio salotto o cantina, l’ascoltatore potesse avere l’impressione di trovarsi nel luogo in cui si svolgeva il particolare evento musicale, per esempio chiesa o stadio sportivo. Si curò anche l’aspetto estetico dell’impianto di riproduzione, destinato ad essere usato in certi luoghi dedicati di un appartamento e utilizzato da un pubblico ridotto, ma colto e raffinato. Ricordo, soprattutto per i suoi prezzi proibitivi, la società danese Bang & Olufsen, i cui prodotti si sarebbero più facilmente venduti da un gioielliere piuttosto che da un negozio di materiale musicale. Ecco dunque che studi sempre più raffinati su supporti elettrici e meccanici portarono alla situazione degli anni ’80, in cui una sapiente e insistente pubblicità (dove sono finiti i ricchissimi cataloghi in carta patinata offerti gratuitamente a chiunque entrasse in un negozio di articoli musicali?) aveva trasformato anche il più scalmanato e sprovveduto ascoltatore di fragorosa e distorta musica “pop” in un esperto di frequenze e di armoniche strumentali o vocali (“timbri”).

Casse acustiche in Kit
I più bravi e coraggiosi (o sfacciati e danarosi) potevano perfino costruire da sé l’intero impianto, o soltanto le casse acustiche, grazie a minuziosi manuali che con testi e disegni insegnavano ad assemblare i vari componenti, forniti in costose “scatole di montaggio”, che ancora non si chiamavano “kit”. Naturalmente erano le casse acustiche quelle che impegnavano maggiormente il musicofilo artigiano e ricordo i seguenti aneddoti personali: a Bristol un collega inglese, che nel tempo libero cantava in una compagnia lirica di dilettanti, mi invitò una sera a cena per mostrarmi orgogliosamente il suo “capolavoro” di “alta fedeltà”: era un’unica enorme cassa di legno contenente tre o quattro altoparlanti, da lui stesso progettati e assemblati nella cassa, collegata all’amplificatore con grossi cavi (più è spesso il cavo, più alto si mantiene il livello dei segnali elettrici), terminanti con connettori ricoperti d’oro (la leggenda dice che solo l’oro riduce le perdite di livello e le distorsioni). La cassa era unica, perché il suo creatore sosteneva che la stereofonia peggiorasse, invece di migliorare, la qualità del suono. Un’altra collega invece mi mostrò il suo impianto, regolarmente stereofonico (due elegantissime casse di gran marca), ma montato su pesanti mensole di marmo antisismiche fatte installare nel salotto: abitava però nella tranquilla campagna tra il Ticino e il Po, dove non solo le scosse di terremoto sono sconosciute, ma le pareti delle case non sono disturbate dalle vibrazioni del traffico su gomma o rotaie che invece fanno tremare giorno e notte i mobili di tutte le case nelle grandi città come Milano o Torino. Una sola di quelle due casse costava in quegli anni ’80 oltre due milioni di lire, quasi il doppio dell’intero mio impianto “stereo” acquistato in un grande magazzino, e circa due mensilità di un tecnico laureato con una dozzina di anni di esperienza lavorativa. Infine ricordo un distinto signore novantenne, vicino di casa, che mi invitò, tutto emozionato, per ammirare un lussuoso sistema “compatto” della Grundig, ancora in parte nell’imballaggio, al quale aveva sacrificato una buona fetta della sua pensione di quell’anno 1980: già non capiva i primi capitoli del grosso manuale e chiedeva il mio aiuto per decifrarlo. Era piuttosto sordo, poveretto, e non seppi mai se fosse rimasto soddisfatto dell’acquisto.

La testina
Certamente erano le casse che attiravano di più l’attenzione dell’appassionato del fai-da-te, ma era la “testina di lettura” il componente più delicato dell’impianto, non appena si trovò il modo di separare i canali destro e sinistro incidendo le due sponde del solco del disco invece del fondo, come negli apparecchi di prima generazione. Gli spostamenti della puntina nelle direzioni corrispondenti ai suoi “gradi di libertà” sono trasformati nella “testina di lettura” in altrettanti segnali elettrici, i quali, dopo i necessari filtraggi, normalizzazioni e adattamenti elettronici, entrano nelle casse acustiche che, per mezzo delle membrane adeguate alla banda di frequenza, emettono il “suono fedele” desiderato.  Sinceramente, pur non essendo io un musicofilo di grandi pretese, non ho mai trovato un impianto audio per uso domestico che mi abbia soddisfatto, per quanto alto fosse il suo prezzo, e forse anche per questo la “morte” (prematura) dell’Alta Fedeltà è passata quasi inosservata, lasciando spazio alle più economiche e meno pretenziose “tecnologie digitali”.

L’assassino dell’Hi-Fi
Si noti che contemporaneamente alle tecnologie digitali hanno avuto successo anche i collegamenti senza fili (“wireless”, per i “millennial”) e perciò sono state dimenticate anche quelle esigenze considerate irrinunciabili per l’Alta Fedeltà (che da ora chiameremo Hi Fi), quali le casse di legno, i cavi di collegamento molto spessi e i connettori dorati. In altre parole, l’assassino dell’Hi Fi è la tecnologia digitale, supportata da connessioni Wi Fi. A questo punto vorrei sollevare una questione che scagiona quasi del tutto ogni possibile assassino dell’Alta Fedeltà, dimostrando che non è mai esistita. Infatti il suono emesso dalla sorgente viene irrimediabilmente deformato dalla catena (meccanico-elettronica) che lo porta alla registrazione sul disco metallico che diverrà il “master” per la produzione di migliaia o milioni di dischi in vinile. L’incisione laterale del solco infatti richiede che il volume del suono sorgente non abbia una dinamica eccessiva, per non compromettere l’uso della superficie del disco da incidere. È pura leggenda quella che ricorda che l’uso di un colpo di cannone vero in una registrazione storica dell’Ouverture 1812 di Ciaikovskij abbia reso inutilizzabile una gran parte del disco “master”, perché è buona e indispensabile norma smorzare (elettronicamente) tutti i picchi di volume, proprio per evitare che la larghezza del solco sia tale da impedire di affiancargli gli altri solchi a una distanza ragionevole; l’obbiettivo infatti è di riuscire a sistemare su un disco a 33 giri (diametro 12 pollici) una spirale registrata della durata di circa mezz’ora, cosa che sarebbe impossibile se si accettassero volumi sonori altissimi che spostano lateralmente in modo eccessivo la testina di incisione. Basta questa limitazione, aggiunta alle due trasformazioni meccanica-elettrica e elettrica-meccanica prima di raggiungere l’incisione, per rendere irriconoscibile il suono sorgente già a livello del disco-master. In ogni caso il “mercato della musica”, che è il più ricco tra quelli generati da una forma d’arte, esige che si lasci al pubblico dei consumatori l’illusione di potere trasmettere a distanza (di tempo e spazio) un’informazione sonora il più possibile somigliante a quella prodotta dalla sorgente.

Presto dal “Wi-Fi” si tornerà all’Hi-Fi rinnovato
Non si sente mai dire, eppure va precisato, che il peggioramento attuale dell’Hi Fi è temporaneo, perché legato alle limitazioni tecnico-commerciali delle tecnologie digitali, che sono fra loro antagoniste; quando si converrà che (quasi) tutti gli obbiettivi commerciali sono stati raggiunti, si potranno migliorare le prestazioni tecniche e riprendere più seriamente il discorso sull’Hi Fi, ripartendo dai livelli di qualità raggiunti finora con le tecnologie analogiche. È doveroso spiegare in poche parole semplici perché il “digitale” peggiori l'”Analogico” (e ciò che si dice per l’audio vale, con le dovute modifiche, per il video combinato con l’audio, anche se chi ce lo ha imposto pretende di averci regalato in tal modo l'”Alta Definizione”, o HD, che sarebbe invece potuta arrivare anche continuando con l’Analogico).
Ecco il percorso di una sorgente sonora in un impianto a tecnologia analogica, o “naturale”:

  1. emissione dell’impulso sonoro dalla sorgente (strumenti o voci);
  2. trasporto (in aria) fino a un “ricevitore” (orecchio o microfono; nel primo caso, il percorso si concluderebbe qui, anche se ormai perfino nei concerti di musica classica è sempre più frequente vedere artisti muniti di microfono, che amplifica e modifica elettricamente i suoni prima che vengano ricevuti dal pubblico);
  3. eccitazioni delle parti meccaniche del microfono;
  4. trasduzione meccanica>elettrica;
  5. trattamento (analogico) del segnale elettrico (filtraggio, normalizzazione, adattamento, ecc.);
  6. trasformazione del segnale elettrico in meccanico (nel caso di “master” inciso) o magnetico (nel caso di registrazione su supporto magnetico);
  7. attesa della lettura;
  8. lettura del supporto registrato;
  9. trattamento elettrico (analogico) dell’informazione letta;
  10. scelta della destinazione: l’informazione sonora trasformata in segnale elettrico potrà essere destinata a una ritrasmissione elettrica con o senza cavo, modulando un’onda, detta (sotto)portante, ad alta frequenza;
  11. potrà essere destinata a un sistema di generazione di suoni in aria, culminante con le casse acustiche di cui si è largamente parlato in precedenza;
  12. l’uscita dalle casse acustiche (trasformazione elettrica > meccanica) è percepita dagli organi dell’udito.

Il percorso del suono in un impianto digitale è praticamente identico, salvo per i punti 4 e 9, dove all’aggettivo “analogico” si deve ovviamente sostituire con “digitale”. Ciò è rigorosamente vero per i vecchi dischi in vinile, mentre per i meno vecchi supporti “digitali” (CD, minidisc, DVD, Blue Ray, ecc.) ai punti 5 e 8 occorrerebbe precisare la differenza tra scrittura e lettura di segnali analogici e digitali.

Dall’analogico al digitale
Il trattamento digitale di un segnale elettrico originariamente analogico lo rende adatto all’elaborazione da parte del software di un (micro) computer, prima di ri-trasformarlo in analogico. Concettualmente, ma anche matematicamente, ciò richiede di trasformare (temporaneamente) un grafico temporale fatto di infiniti punti contigui in una serie finita di trattini orizzontali discreti (punti di campionamento), ciò che in matematica si chiama “istogramma”. Ad ogni trattino si assegna un numero di valore proporzionale all’altezza nel grafico, il numero è codificato col sistema binario che si usa nei computer fin dalla loro nascita e il software dedicato opera su di esso secondo le istruzioni del programma, eseguendo operazioni di vario tipo, il cui risultato diventa la nuova serie di numeri che l’elettronica ri-trasforma in una curva analogica. Se i trattini sono molto lunghi nel tempo (si badi però che si tratta sempre di microsecondi)  le linee costituenti la “trasformata analogica” formano però una “spezzata” che non solo si differenzia da una curva continua, ma perde anche la memoria di certe variazioni che sono più rapide della distanza temporale fra due punti della spezzata e in questo modo vengono perse (definitivamente) lungo il percorso digitale alcune preziose caratteristiche musicali, in particolare quelle riguardanti il “timbro” degli strumenti e delle voci. Per questo si dice che a volte sia reso un suono “metallico” o che non si avverta la presenza di qualche nota molto acuta (cioè con armoniche di frequenza molto alta). Ciò è sufficiente a dimostrare che un’eventuale “alta fedeltà” si riduce a ben poco nei due momenti in cui il suono è trattato in forma digitale.

La compressione del suono
A tutto ciò si aggiunga che la tecnologia digitale, avida di posizioni di memoria, fa un uso a volte smodato delle tecniche di “compressione”, di cui un esempio è il seguente: supponiamo che una nota abbia una durata lunga, oppure che più note consecutive siano identiche; anziché usare svariati numeri identici, la compressione permette di indicare solo il primo e l’ultimo, usando un codice semplicissimo (cioè che occupa poca memoria) per tutto il tempo in cui non ci sono variazioni; come si diceva più sopra, le variazioni più rapide dell’intervallo temporale fra due numeri non sono rilevate e sono perdute per sempre e inoltre gli istanti in cui avvengono queste semplificazioni sono arrotondati più o meno accuratamente a seconda della frequenza con cui avviene il campionamento. Anche supponendo di avere memorie inesauribili e programmi efficientissimi, occorre tenere presente che la tecnologia richiede tempi di accesso alle memorie che sono sì sempre più brevi, ma costituiranno sempre un limite alla brevità degli intervalli di campionamento e quindi, ancora una volta, alla Fedeltà di riproduzione dei suoni. Il problema della compressione è molto più complesso di quello citato nell’esempio, ma bisogna ricordare che il procedimento è indispensabile, sia per il sonoro, che per le immagini, le quali hanno una richiesta di spazio di memoria ancora maggiore.

L’alta definizione
È stato valutato che la capacità di definizione di una pellicola fotografica o cinematografica (che è il supporto analogico di un’immagine) è di circa 15 milioni di punti (ormai da tutti chiamati “pixel” = “elementi di una “picture” o immagine) per ciascuno dei tre colori fondamentali. Considerando lo scorrimento delle immagini cinematografiche a almeno 24 fotogrammi al secondo, per riprodurre immagini di un filmato a colori si dovrebbero poter elaborare in modo digitale, e per le sole immagini, senza suoni, almeno 360 milioni di punti al secondo, che sono equivalenti ad almeno 3 Gigabit/secondo, corrispondenti a frequenze di 3 GHz, invadendo così già all’interno del computer il campo delle frequenze di trasmissione (le “portanti”, e non le “modulanti”) di immagini e suoni. Una compressione di almeno un fattore 10 (300 Mbit/sec) è al giorno d’oggi indispensabile (il suono è 10000 volte meno esigente in fatto di frequenza, ma ad esso si applicano ugualmente forti compressioni per poter caricare su un piccolo mezzo un numero spropositato di pezzi musicali, come avviene per il diffusissimo mp3). Si noti che le ricerche nello Spazio, soprattutto, ma anche a Terra, spesso non ammettono di perdere anche un singolo pixel dell’immagine, che, se fosse presente, potrebbe indicare un’anomalia nell’esperimento: è uno dei tanti casi in cui, non potendo procedere a una compressione spinta, pena la perdita dell’osservazione di un’anomalia, è falso affermare che è la tecnologia spaziale a trascinare e a produrre tecnologie avanzate terrestri. È vero piuttosto il contrario: ai miei vecchi tempi, per esempio, cioè alla fine degli anni 80, si usavano i primi “lap top computer” (ossia i “portatili”) in attività spaziali solo per esperimenti sui voli parabolici di preparazione alle missioni spaziali effettive, che si sarebbero svolte alcuni anni più tardi. Chiusa questa parentesi spaziale, ribadisco che la tecnologia digitale ha abbassato fortemente le aspettative di qualità di quella che sarebbe diventata la Fedeltà della riproduzione dei suoni; in cambio, il mercato dell’elettronica musicale ha offerto (o piuttosto imposto) ai consumatori la possibilità di simulare gli ambienti in cui si producono e si ascoltano i suoni, a partire dall'”Home Theatre” e “Home Cinema”, e quindi in funzione anche della trasmissione di immagini. Il compito è più facile per i produttori e l’offerta è più apprezzata dai consumatori di bocca buona, cioè da quelli che anche dal vivo già ascoltavano musica largamente inquinata dall’elettronica applicata a voce e strumenti. I vecchi simulatori di ambiente degli anni novanta sono stati affinati e miniaturizzati, tanto da essere incorporati in tutti i modelli di televisori a grande schermo. Le grandi imprese giapponesi, come Yamaha, pretendono di avere mandato in giro per il mondo i propri tecnici a misurare le caratteristiche di eco, riverbero, rimbombo e così via, dei maggiori templi della musica e il consumatore, piazzato il suo tubo di plastica e metallo sotto il televisore, crede di sentire, emessa da quel tubo (e non dalle vecchie ingombranti casse), la stessa musica che sentirebbe se fosse presente alla Scala, al Metropolitan, nel Duomo di Milano, allo Stadio di San Siro, eccetera; si sceglie premendo su un telecomando il tasto che porta il nome del luogo preferito. Fortunatamente, mi sembra che nessuno si illuda di avere in mano un impianto Hi Fi, che la pubblicità, in un impulso di onestà, ha tolto dai cataloghi.

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