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Pubblichiamo la lettera del premier Conte alla UE che bacchetta la Germania

Il testo della lettera del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, indirizzata agli altri 27 Paesi membri Ue, al Presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, e al Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk.
Siamo all’inizio di una nuova legislatura europea e dobbiamo approfittare di questa preziosa occasione per raccogliere le nuove sfide, lavorando al rinnovamento delle regole comuni e alla introduzione di strumenti che possano soddisfare più efficacemente i bisogni dei cittadini. L’Italia vuole cogliere questa opportunità di cambiamento.
Il processo di integrazione, che nei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale ha rappresentato l’orizzonte ideale per le nostre democrazie avanzate, sembra aver perso la sua originaria forza propulsiva, con il risultato che si moltiplicano gli interrogativi e le perplessità sul futuro dell’Unione europea, quando invece proprio l’attuale congiuntura storica dovrebbe suggerire maggiore unità e più condivise strategie per consentire agli Stati membri di sostenere il peso della competizione globale.
Lo scenario geostrategico appare mutato. L’avanzamento tecnologico pone questioni non ancora esplorate, che rischiano di porre in discussione gli stessi fondamenti antropologici. Si prospettano nuove traiettorie demografiche, suscettibili di indirizzare il continente europeo verso una stagnazione secolare.
I nostri popoli ci richiamano alla responsabilità, ricordandoci che la politica, se asservita alle ragioni dell’economia e, in particolare, della finanza e se orientata esclusivamente a contenere i debiti sovrani, abdica alla propria missione, finendo per perdere la propria legittimazione.
La società civile mostra crescenti segnali di insofferenza, dinanzi ai quali non possiamo rimanere indifferenti; questa insofferenza ha le sue origini nelle politiche di austerità applicate nell’ultimo decennio.
In questo momento è urgente affrontare con lucidità e spirito critico alcuni limiti strutturali del progetto europeo. Dobbiamo coraggiosamente riconsiderare ciò che fino ad oggi è stato acriticamente accettato, se non in alcuni casi subìto, al fine di evitare che una certa disaffezione dei cittadini verso le Istituzioni europee degeneri in instabilità sociale, con ripercussioni negative sulla tenuta politica dell’intero continente.
Una comunità integrata e solidale non può accettare, ad esempio, livelli di disoccupazione che si mantengono al di sopra di soglie molto elevate. È uno scenario che coinvolge milioni di persone, che rischiano di rimanere prive di un futuro, destinate all’emarginazione e alla perdita di competenze professionali. Se è accettabile una disoccupazione fisiologica e di breve periodo, non lo può essere una disoccupazione strutturale, che danneggia gli Stati e comporta la desertificazione di interi territori.
La nuova legislatura europea ci spinge ad assumere, con coraggio e visione, decisioni fondamentali per il nostro futuro. L’attuale generazione di leader europei sarà ricordata per come avrà interpretato questo tempo di crisi, se si sarà limitata ad amministrare l’esistente, accompagnando le nostre società verso questo inesorabile declino, o se avrà avuto il coraggio di invertire questo processo, offrendo alle donne e agli uomini che abitano il Continente, soprattutto alle giovani generazioni, un autentico cambiamento di metodo e di prospettiva, unito alla speranza di un nuovo, possibile riscatto.
Per questo, ritengo che sia nostro dovere aprire, adesso, senza ulteriore indugio, una “fase costituente”, per ridisegnare le regole di governo delle nostre società e delle nostre economie, riconsiderando modelli di sviluppo e di crescita che si sono rivelati inadeguati di fronte alle sfide poste da società impoverite, attraversate da sfiducia, delusione e rancore.
Prima che l’Unione Europea si trovi a dover affrontare nuove crisi finanziarie sistemiche e globali, occorre una riflessione approfondita su come assicurare un effettivo equilibrio tra stabilità e crescita, tra riduzione e condivisione dei rischi. Sono poli dialettici, ma devono essere valutati insieme, devono essere tra loro adeguatamente bilanciati. Come l’esperienza ha dimostrato, se sono posti in opposizione, se per assicurare la piena realizzazione dell’uno si sacrifica l’altro, si rischia di pagare un prezzo molto elevato per la coesione sociale ed economica di singoli Stati membri e, quindi, per la credibilità stessa del progetto europeo.
L’Italia, in quanto Paese fondatore della casa comune, avverte la piena responsabilità di coltivare un dialogo aperto e costruttivo con la Commissione europea. Lo ha dimostrato anche di recente, nel dicembre 2018, allorché un intenso negoziato ha consentito di chiarire i dettagli della nostra manovra economica, in linea con le regole previste nel Patto di stabilità e crescita. Adesso l’Italia viene nuovamente sollecitata a dare conto del rispetto di queste regole.
Non intendiamo sottrarci a tali vincoli, né intendiamo reclamare deroghe o concessioni rispetto a prescrizioni che, finché non saranno modificate secondo le ordinarie procedure previste dai Trattati, sono in vigore ed è giusto che siano tenute in conto dai governi di tutti gli Stati membri.
E, tuttavia, con la medesima determinazione, avvertiamo l’urgenza e la necessità di stimolare una discussione che miri a ridefinire la governance economica dell’Eurozona e dell’Unione, che non si è dimostrata adeguata ad assolvere i compiti per i quali era stata pensata. È necessaria una profonda revisione, forse anche un’autentica conversione, delle regole euro-unitarie per pervenire a un sistema integrato di governo che possa perseguire effettivamente, in modo stabile e duraturo, il benessere economico e sociale dei popoli.
Il Governo italiano, secondo gli indirizzi condivisi dalle forze politiche di maggioranza, intende proseguire nel dialogo con le Istituzioni europee. Con lealtà e consapevolezza, esporremo le nostre ragioni, che – ne sono convinto – contribuiranno, se ascoltate senza pregiudizi, a evitare una decisione del Consiglio sull’apertura della procedura per disavanzo eccessivo.
Il quadro di finanza pubblica dell’Italia è coerente con il rispetto, per il 2019, delle regole del braccio preventivo del Patto di stabilità e crescita. Ho già avuto modo di spiegare pubblicamente come, sulla base delle più recenti informazioni, sia oggi possibile prevedere, per l’anno in corso, un saldo di bilancio sensibilmente migliore rispetto alle previsioni formulate dalla Commissione e dallo stesso Governo italiano nel Programma di stabilità.
Questo risultato verrà conseguito, nonostante il quadro macroeconomico si sia rapidamente deteriorato rispetto quanto era prevedibile alla fine del 2018. Nelle competenti sedi tecniche forniremo i riscontri documentali necessari a comprovare questa valutazione aggiornata. Mi limito qui ad anticipare che la ragione fondamentale dell’andamento positivo dei saldi di bilancio risiede nella prudenza alla quale sono state ispirate le nostre previsioni per le entrate e le uscite di bilancio. Constatiamo con soddisfazione che, anche grazie alle misure adottate per accrescere la fedeltà fiscale, le entrate sono migliori del previsto.
Parimenti registriamo, per le spese, una dinamica più moderata di quella originariamente prevista.
Per il 2020, il Governo ha ribadito che intende conseguire un miglioramento di 0,2 punti percentuali nel saldo strutturale di bilancio. In linea con la legislazione vigente, il Programma di stabilità prevede un aumento delle imposte indirette pari a quasi l’1,3 per cento del PIL, che entrerebbe in vigore nel gennaio 2020.
Il Parlamento ha invitato il Governo, in primo luogo, a riformare l’imposta sul reddito delle persone fisiche nel rispetto degli obiettivi di riduzione del disavanzo, per il periodo 2020-2022, definiti nel Programma di stabilità. In secondo luogo, lo ha invitato a evitare gli aumenti delle imposte indirette per il 2020, individuando misure alternative idonee a garantire il miglioramento strutturale.
Di conseguenza, in vista dell’approvazione del Documento programmatico di bilancio per il 2020 e alla luce delle più aggiornate previsioni macroeconomiche, il Governo, anche nel rispetto delle indicazioni poste dal Parlamento, sta elaborando un programma complessivo di revisione della spesa corrente comprimibile e delle entrate, anche non tributarie.
Consapevole dei rischi derivanti da un debito molto elevato, l’Italia ha intrapreso questo percorso per ridurne progressivamente il peso sul PIL, adottando una politica di bilancio finalizzata a coniugare il sostegno alla crescita con la riduzione del costo del debito, che oggi assorbe quasi il 3,6 per cento del PIL.
La credibilità di questa strategia risiede, primariamente, nella consapevolezza della sua utilità a realizzare gli interessi dei cittadini italiani. Siamo peraltro consapevoli che questa strategia tornerà utile per la stabilità di tutta l’Eurozona. L’equilibrio dei conti pubblici è certamente un punto cardine della complessiva architettura economica e finanziaria europea. Vero è che non può essere il fine di questa nostra architettura e, soprattutto, non può costituire l’unico parametro di riferimento di qualsiasi misura di politica economica e sociale.
Come dimostra il caso della Grecia, la scelta di limitare l’azione di governance all’esclusivo e rigoroso rispetto delle regole di bilancio, senza tenere conto dell’impatto sociale che tali determinazioni possono produrre sui cittadini degli Stati membri, si rivela drammaticamente controproducente, alimentando rancore e contribuendo, in misura significativa, ad allontanare le Istituzioni europee dalle tante periferie, non solo geografiche, del Continente.
La nuova “fase costituente” che ho auspicato, al contrario, dovrà porre nuovamente al centro il benessere economico e sociale dei cittadini europei. Sicurezza sociale e creazione di lavoro, unite alla previsione di un’assicurazione europea contro la disoccupazione e a un salario minimo garantito a livello europeo costituiscono le prime, concrete sfide della stagione che si apre con l’avvio della nuova legislatura europea.
Peraltro, l’ossessione dei conti in ordine spinge alcuni Paesi a una accentuata concorrenza fiscale, che, come la stessa Commissione ha di recente riconosciuto, mina la capacità degli altri Stati di conseguire sane politiche di bilancio.
In questa prospettiva, l’Italia è tra i Paesi più fortemente danneggiati: lo sforzo nel ridurre il proprio debito risulta compromesso nella misura in cui altri partner europei, ai quali dovrebbero legarci vincoli di solidarietà, si adoperano per attrarre base fiscale. Purtroppo è amaro costatare che l’uso spregiudicato del ruling, dei patent boxes, del treaty shopping costituiscono, ormai, pratiche diffuse tra alcuni Stati membri dell’Unione.
Non solo. L’Italia, con la sua forte specializzazione per la manifattura, è danneggiata negli sforzi compiuti per crescere a un ritmo più sostenuto che possa garantire un rapido declino del suo debito, se le politiche macroeconomiche di alcuni grandi partner sono prevalentemente dirette a conseguire ampi surplus di parte corrente e di bilancio, piuttosto che ad attivare politiche di investimento, di innovazione, di protezione sociale e di tutela ambientale. L’Italia e l’Europa sono tanto più danneggiate se questi surplus istigano reazioni protezionistiche da parte dei nostri più importanti partner commerciali.
Le regole europee, mentre si mostrano estremamente rigorose nel censurare politiche nazionali espansive potenzialmente suscettibili di incidere sulla dimensione del debito sovrano, non sanzionano con analogo rigore questi comportamenti, che certamente non sono meno destabilizzanti per il benessere dei cittadini europei di quanto non lo sia un elevato debito pubblico.
L’interpretazione sin qui prevalsa delle regole europee ha finito per penalizzare costantemente gli sforzi compiuti dall’Italia nel perseguire politiche mirate alla crescita economica e allo sviluppo sociale, in un quadro responsabile di equilibrio finanziario. All’interno di un sistema integrato quale quello europeo, non v’è effettiva “égalité des armes” sul piano della crescita e della competitività, se alcuni Stati membri si affidano a politiche fiscali e commerciali ai limiti delle unfair practices e del dumping fiscale e sociale.
L’Italia non si è mai sottratta ai propri obblighi, mossa dallo spirito di collaborazione per la costruzione della casa comune europea, della quale è Paese fondatore. Né ha mai abdicato ai suoi doveri di solidarietà nei confronti degli altri popoli europei, come testimoniano i significativi apporti netti al bilancio comunitario e i contributi ai vari programmi di sostegno di altri Stati membri che versano in condizioni di maggiore difficoltà.
Il nostro Paese ha inoltre mantenuto un saldo primario largamente in attivo per oltre venti anni di seguito, ad eccezione del 2009, e superiore a quello della media dell’Eurozona. Questo significa che, al netto della spesa per interessi, l’Italia è stata tra i Paesi più virtuosi dell’Unione europea e tuttora spende meno di quanto ricava dalle entrate. Perseverare su ricette economiche che hanno vanificato questo enorme sforzo fiscale risulta controproducente per tutti.
Non mi appare dunque comprensibile esporre l’Italia, a distanza di pochi mesi dalla conclusione di un negoziato molto impegnativo, al rischio di una nuova procedura di infrazione per violazione della regola del debito, sulla base di una discutibile valutazione della sua condizione ciclica da parte della Commissione.
In considerazione della gravità delle conseguenze economiche e politiche di una procedura di infrazione per debito, occorrerebbe prestare maggiore attenzione alle stime dell’output gap, presentate dall’Italia nel suo rapporto sui fattori rilevanti, le quali sono molto distanti da quelle della Commissione, ma sono, al contrario, prossime a quelle presentate da altre istituzioni di elevata reputazione, come il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE.
L’Italia, nell’interesse dei suoi cittadini e degli altri cittadini europei, adotterà una politica di bilancio attenta e coerente, nella consapevolezza tuttavia che occorre con urgenza dotarsi di un sistema di regole più idoneo a garantire ai cittadini europei pace sociale e crescita sostenibile.
Per questo, sottoporrò all’attenzione degli interlocutori europei alcune proposte specifiche e concrete per l’Eurozona.
In primo luogo, ritengo utile prevedere una fiscal stance, volta a sostenere la domanda interna e a ridurre gli squilibri macroeconomici.
In secondo luogo, occorre strutturare un bilancio dell’eurozona più ambizioso in termini di risorse e di obiettivi, tra i quali inserire la stabilizzazione ciclica, la crescita di lungo termine e la convergenza tra i Paesi. La somma di 17 miliardi di euro appare decisamente insufficiente.
Inoltre, reputo urgente introdurre un sistema efficace di eurobond, perché la storia ci ha insegnato che un’unione monetaria priva di uno strumento di mutualizzazione non è sostenibile nel lungo periodo. In vista di questo obiettivo, si può partire con uno schema transitorio, che non preveda trasferimento di risorse tra Paesi membri.
Altrettanto indifferibile, a mio avviso, è la realizzazione un’unione bancaria, che ci permetta di superare la segmentazione dei mercati finanziari, anche grazie ad una valutazione olistica dei rischi bancari, inclusi quelli legati ai derivati.
Sappiamo che i membri più ricchi richiedono ai membri più in difficoltà crescenti assicurazioni contro i rischi. Oltre un certo limite, queste richieste finiscono per aumentare, anziché diminuire, la pressione dei mercati, esponendo i Paesi a pressioni finanziarie indipendenti dai loro fondamentali economici.
Infine, occorre introdurre regole più efficienti per la gestione delle crisi bancarie.
Su questi temi l’Italia è pronta a fare la propria parte, per costruire un’Europa più vicina ai cittadini, più forte, più solidale, più giusta.
Il mio Paese non può essere certo accusato di voler compromettere il progetto europeo. Piuttosto è vero il contrario: intendiamo alimentare questo progetto con nuova linfa. L’Unione europea o riforma sé stessa, con intelligenza e spirito di autocritica, oppure è destinata ad un lento ma irreversibile declino, che potrebbe dissolvere l’originaria prospettiva di pace, democrazia e benessere.
Giuseppe Conte

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