Press "Enter" to skip to content

Studiare per farsi capire

Dovendo seguire la crisi di governo ho dovuto ascoltare strafalcioni a non finire pronunciati da chi si candida a gestire la Cosa Pubblica insieme a chi lo intervistava (ho sentito perfino confondere Federico di Prussia con Federico II di Svevia, detto Stupor Mundi). A causa di tutto questo caos dominato dall’ignoranza, lasciando perdere l’ormai inflazionato concetto della “schiena dritta” (sostantivo+aggettivo) che dovrebbe attagliarsi a chi non ha mai lavorato mentre oggi lo si dice di chi ha una grande statura morale per cui, forse, sarebbe meglio dire che va “a testa alta”, e lasciando pure perdere il concetto di “discontinuità” che ha ormai soppiantato quello di “svolta” per cui un tempo, certamente migliore del nostro, i politici, molto più colti ed esperti degli attuali, quando cambiava la politica di governo parlavano di “svolta”, mi piace sottoporre all’attenzione dei lettori di Alessandria Oggi uno scritto (lungo ma gradevole) di Giusto Buroni, che può essere utile a chi vuole ancora parlare e scrivere correttamente in italiano, la lingua più bella del mondo.
Andrea Guenna

di Giusto Buroni – Dopo alcuni scambi di opinione con persone di presunta cultura in svariate materie (dalla medicina alla diplomazia), constatata la quasi totale assenza di interesse scientifico per l’argomento “linguaggio”, ho meditato sull’importanza sociale di riuscire a ricordare al pubblico come si imposti un discorso scritto o parlato per ottenere la massima comprensione. Spero di darne almeno un’infarinatura, pur essendo consapevole che, grazie alle lauree triennali e magistrali in “Scienza della Comunicazione”, dovrebbero esistere ormai anche in Italia (come all’estero) migliaia di specialisti in grado di fornire sostegno autorevole e qualificato a chiunque sia nella necessità di farsi capire dal “prossimo”, sia negli affari e nel lavoro, che nei rapporti umani.

All’inizio era il Verbo
Considerando però la scadente preparazione dei soggetti esaminati, visti e sentiti per esempio in TV, o che si sono cimentati in imprese giornalistiche e letterarie, ho l’impressione che la conoscenza del linguaggio e del modo di usarlo, in Italia o altrove, pur ritenuta importante, sia gravemente compromessa. Per lo più essa si apprende solo attraverso un processo di “assimilazione naturale” dagli ambienti in cui si vive e si opera. Si pensa generalmente che tale processo sia prerogativa di tutte le specie viventi che dispongano di uno strumento con cui comunicare (nella specie umana: la “parola”) e che quindi la “comunicazione verbale” sia una qualità innata, a cui un apprendimento scolastico non aggiunge valore. Oggi un concetto del genere (inutilità di un approccio “scientifico” a un linguaggio bene articolato) si identifica con “l’autoapprendimento” dei computer programmati per praticare “l’intelligenza artificiale”, ma può essere sostenuto solo dagli sprovveduti che non immaginano o rifiutano di immaginare quante attività e quanta intelligenza (non artificiale) siano sottintese dal termine “programmati” usato solo tre righe più sopra. Il Linguaggio da usare per la Comunicazione Verbale è dunque una grossa macchina scientifica, che perciò deve rispettare certe regole logiche, ma che, rispetto alla matematica, comporta anche una serie di cosiddette “eccezioni”, le cui ramificazioni complicano ulteriormente la vita dell’utilizzatore coscienzioso.

La parola assimilata ai numeri
Per la cronaca, citerò lo sforzo fatto da un certo Noam Chomsky, americano-ucraino, nato nel 1928, oggi più che altro “attivista politico”, beato lui, che per tre quarti di secolo ha cercato invano, prescindendo dai vocaboli, di stabilire delle formule (rappresentate con simboli dedicati) che rappresentassero ipotetici rapporti “universali”, analoghi alle funzioni matematiche, fra i termini di tutte le lingue. Nonostante l’impegno suo e di centinaia di discepoli il tentativo non ha (ancora) avuto successo, ma il lavoro ha portato a risultati interessanti nel campo della linguistica e della semantica in generale, contribuendo a migliorare la qualità della comunicazione tra i popoli e fra i nuclei sociali (di buona volontà, ovviamente).
Allo scopo di risvegliare “in grandi e piccini” l’interesse per la materia di studio più trascurata al mondo, nonostante l’importanza sociale, introduco qui di seguito, il più sinteticamente possibile, gli argomenti da sviluppare, con una loro definizione sommaria, secondo la mia modesta ma originale interpretazione di come potrebbe essere un prontuario di “Nozioni e regole essenziali per la comunicazione”. Il manuale nelle mie intenzioni sarebbe strutturato come lo si intendeva oltre mezzo secolo fa e quindi non comprende, fra l’altro, le diseducative inutili “novità” nate dalle “nuove tecnologie”, quali ad esempio gli acronimi angloamericani (tipo ASAP = As Soon As Possible = Al Più Presto), che hanno lo scopo di ridurre il numero di caratteri (e quindi di dati digitali) trasmessi fra due terminali elettronici. Sono sciocche semplificazioni che l’elettronica può fare automaticamente (così come fa coi sistemi binario e decimale) senza scomodare l’utente e senza appesantire il flusso dei dati scambiati.

Causa ed effetto del linguaggio
Per un buon uso della lingua parlata e scritta, che presuppone la conoscenza di pronuncia e ortografia, su cui non ci soffermeremo più di tanto, si deve cominciare dalla semantica, che è ovviamente (non per tutti) il “significato preciso delle parole nelle intenzioni di chi le usa” (fra le tante, questa è la mia definizione). A volte il solo spostamento dell’accento tonico cambia il significato (còmpito – compìto – compitò: tre concetti completamente diversi e nemmeno troppo apparentati); in molte lingue, compresa la nostra, che pure presenta molte “ridondanze” in vocaboli lunghi, basta dimenticare, aggiungere, raddoppiare un solo carattere per stravolgere del tutto il significato, che potrebbe arrivare a non potersi ricostruire neanche ricorrendo al contesto in cui la parola si trova (fisico – fisco – tisico). Quindi un corretto impiego della Semantica non può prescindere da un’ottima conoscenza di Pronuncia, Ortografia e… Etimologia. Ricordo un simpatico ristoratore cinese, preoccupato per l’acquisto dei “muli”, che non erano altro che le pareti, da riscattare, del locale di cui per il momento pagava l’affitto. L’importanza del terzo requisito, l’Etimologia, emerge dalla stessa parola “semantica”, che viene spesso confusa con altri due termini derivati dalla medesima radice greca (“semainein”= significare): “semiologia” e “semeiotica”. La prima è la scienza che studia il significato di tutti i simbolismi, anche non linguistici (per esempio la “lingua dei sordi”, l’alfabeto “Braille”, ma anche la segnaletica stradale), la seconda studia in particolare le sintomatologie delle malattie.

“Spacchettiamo” la nostra lingua
I tre elementi citati sono quelli che si può pensare di “imparare in famiglia” (o nell’ambiente in cui si vive e opera), anche se nella maggior parte delle famiglie si può trascorrere una vita intera senza mai incappare nella parola “semantica” e forse neanche “etimologia”. Figuriamoci se si possa immaginare di assimilare da una famiglia, che non sia formata tutta da professori di lingue, gli altri elementi che assicurano la conoscenza di un linguaggio: la Grammatica, con le relative Analisi (Grammaticale e Logica) e la Sintassi (che comporta anch’essa l’Analisi Sintattica). A chi non fosse d’accordo suggerisco questo semplicissimo “test” (=”esperimento”, per i neopuristi “fai da te”): sospendere questa lettura e scrivere su un pezzo di carta (o su un “tablet”) la lista delle “parti del discorso” fondamentali che si trovano in una “lingua campione”, come è quella Italiana. Alcuni scopriranno subito di non sapere che cosa sia una “parte del discorso” e troveranno una “nobile” scusa per rinunciare, del tipo “Ma queste sono cose che si chiedono ai bambini delle Elementari!”, senza ammettere però di essere più ignoranti di quei bambini (e di esserlo stati per una vita); altri prenderanno atto che si tratta delle “categorie” in cui conviene suddividere i vari tipi di parole per poter procedere nello studio di una lingua; ma ugualmente si renderanno conto di non sapere nemmeno di “quante” categorie stiamo parlando, figuriamoci “quali” (ammesso che si sappia la differenza tra “quante” e “quali”: ecco che rientra in gioco la “Semantica”). Fatto il semplice test e superato lo “choc”, o lo “shock” o meglio il “trauma” (ancora un problema di Semantica), se si vuole subito migliorare il proprio Italiano, suggerisco di prepararsi un cartello, da conservare a portata di mano se si intende proseguire lo studio, sul quale si scrivano su undici (11) linee, in caratteri cubitali, le seguenti parole (escludendo gli esempi), possibilmente nell’ordine che suggerisco:

  • Articolo (il, lo, la, i, gli, le, un, uno, una: non ce ne sono altri, e forse solo il Tedesco, declinandoli, ne ha di più; il Russo non ne ha nessuno: nel primo capitolo di tutte le grammatiche si avverte: “Artikli niet”)
  • Sostantivo (o Nome) (p. es.: tavolo, oca, scarpa, Goffredo, Cinisello)
  • Pronome (p. es. io, tu. egli, esso, lui, me, te, loro, mi, ti, ci, si, vi)
  • Aggettivo (p. es. buono, brutta, alta, storto, povero, indigente, sordo, tatuato)
  • Verbo (p. es.: giocare, correre, lavarsi, essere, avere)
  • Avverbio (p. es. più, meno, vicino, presto, dolcemente, male, meglio)
  • Preposizione (p. es.: di, a, da, in, con, su, per, tra, fra, sopra, sotto)
  • Congiunzione (o disgiunzione) (p. es.: e, o, anche, perché, sia, ma)
  • Affermazione (p. es. sì), da alcuni classificata come avverbio
  • Negazione (p. es. no, non), da alcuni classificata come avverbio
  • Interiezione (p. es.: oh, ahi)

L’italiano è una lingua duttile
Dal che risulta che sorprendentemente nella Lingua Italiana le parti del discorso fra loro distinte sono ben undici (o nove); alcune di esse possono combinarsi con alcune altre a formare degli “ibridi” (o “composti”), come “dagli”, “ahimè”, “accorgersi”, “signorsì”, “contenere”, “sostenere”, ecc., ma la cosa non costituisce una complicazione notevole, una volta che siano chiari i costituenti (nell’ordine: preposizione+pronome, interiezione + pronome, verbo+pronome, sostantivo+affermazione, preposizione + verbo, idem).
Fra le Parti del Discorso si dimenticano spesso i segni di INTERPUNZIONE (“punteggiatura”), dimenticando che sono fondamentali per la corretta comprensione di un testo: p. es. una virgola messa prima o dopo un pronome relativo “che”, oppure omessa, cambia tutto il senso di una frase).
Tenendo bene in vista il cartello con le “Parti del Discorso”, si prenda poi un breve articolo di giornale e si indichi a quale categoria appartenga ogni singola parola, ammettendo onestamente (a se stessi) quando non si riesca a farlo.

Molte sono le domande
Da bambino (c.ca 1950), ogni volta che mi capitava di bloccarmi, io mi presentavo vergognoso a un vicino del piano di sopra (Ludovico) molto noto nel quartiere perché frequentava, con profitto, un liceo; gli chiedevo spiegazioni esaurienti (“esaustive” non lo diceva ancora nessuno), ringraziavo e me ne tornavo soddisfatto, pronto per un nuovo esercizio. Informavo di ogni problema la Mamma, la quale, impegnata ad assistermi nei compiti pur venendo da una Terza Commerciale, era ben lieta di arricchire le proprie conoscenze della grammatica, pur avendo quasi 30 anni, tre figli e ovviamente solo la radio per comunicare col resto del mondo (neanche il telefono era ancora disponibile ai privati alla periferia di Milano).
Se qualcuno accetterà di seguire questi semplici consigli per ripassare la grammatica italiana (o inglese o francese, se necessario), sono disponibile per rispondere gratuitamente a ogni domanda, cercando di essere bravo quanto il mio amico Ludovico e soprattutto più di Internet.
L’individuazione dei costituenti di un testo si esegue per mezzo dell’Analisi Grammaticale già menzionata, in modo da distinguere con precisione le differenze fra elementi fra loro molto vicini. Per esempio: Peperoncino = sostantivo diminutivo maschile singolare; Ciliegine = sostantivo diminutivo femminile plurale. Tale distinzione, come si sa, permette di concordare gli eventuali articoli e aggettivi: “i peperoncini rossi”, “le ciliegine candite”; e, nel caso il sostantivo sia SOGGETTO in una frase, di coniugare propriamente i verbi: “i peperoncini rossi bruciano la lingua”, “ciliegine candite ornavano la torta”. Se il sostantivo (o il pronome, che può sostituirlo nei rapporti col verbo, con l’articolo e con l’aggettivo) sia o no soggetto, si stabilisce con la già menzionata Analisi Logica, da cui l’Analisi Grammaticale non può prescindere. In altre parole, l’analisi logica stabilisce chi è responsabile di un’azione (soggetto) e chi (se esiste) ne subisce le conseguenze, e in quale modo e circostanza (COMPLEMENTI, la cui tipologia, quasi sempre definita dalla PREPOSIZIONE, è molto estesa: di termine, di luogo, di specificazione, di scopo, eccetera). L’Analisi Grammaticale stabilisce le caratteristiche degli elementi (il “soggetto responsabile”, i “complementi sottoposti” e i “collegamenti”) e se gli elementi richiedano o ammettano concordanze, in modo da permettere le giuste corrispondenze e da assicurare la comprensione del discorso.
In fatto di posizione dei termini all’interno della frase la lingua italiana è fra le più “indisciplinate” (insieme con la Russa e a differenza della Tedesca) e quindi l’individuazione delle concordanze è fondamentale per stabilire le “gerarchie” nell’intorno dell’azione definita dal verbo. Tale difficoltà viene esasperata dalle “consuetudini” poetiche che, nella scelta della posizione delle parole, danno la priorità al ritmo e alle rime piuttosto che alla gerarchia delle azioni (per esempio soggetto prima del verbo seguito da un “complemento”) e alla vicinanza dei termini correlati (per esempio nome e suo aggettivo preposto o posposto, e senza inserimento di altri elementi).

Poesia e prosa
Cito come esempio divertente il famoso brano della Traviata (opera lirica), che, conosciuto in tutto il mondo, ha fatto credere a milioni di persone che Alfredo si lamentasse del costo della vita a Parigi, oppure che Parigi gli fosse particolarmente cara, come sembra dire il titolo di un noto film (“Parigi, o Cara”). Infatti il testo originale del brano è:

Parigi, o cara, noi lasceremo,
La vita uniti trascorreremo:
De’ corsi affanni compenso avrai,
La tua salute rifiorirà.
Sospiro e luce tu mi sarai,
Tutto il futuro ne arriderà.

Tradotto in “prosa” (alle mie Elementari si diceva “fare la parafrasi”) il brano diventa:
“Mia cara, noi lasceremo Parigi e passeremo la vita insieme. Sarai ricompensata delle disavventure che hai passato e la tua salute si ristabilirà. Tu sarai per me l’aria che respiro e la luce, tutto il futuro ci sarà favorevole”.
Come si vede, che si parlasse di Parigi o…Milano non aveva nessuna importanza, ma l’attenzione del pubblico, che conosceva poco, ma molto più di oggi, A. Dumas (figlio), fu attirata da “Parigi” e tuttora lo è. L’esercizio della parafrasi era molto faticoso per i bambini di dieci anni, ma forse evitò che allora si potesse dire, al contrario di oggi, che l’80% della popolazione non comprende il significato di ciò che legge (ma stranamente è aumentato in modo inverosimile il numero delle persone che leggono).

Il computer ci fa diventare ignoranti
Di tutte le materie citate, la Grammatica è la più nota (di nome, non di fatto) e la più ponderosa: pochissimi la degnano di approfondimento e gli errori grammaticali spuntano ovunque negli scritti, e più ancora nei discorsi, di burocrati, tecnici, giornalisti, “scrittori” (lo sono diventati cani e porci), radio- e telecronisti, opinionisti, medici, critici d’arte, religiosi, “docenti”, professori, maestri elementari, giudici e avvocati, eccetera. E tutti questi oggi, quando scrivono, sono “graziati” in gran parte dal “correttore ortografico” del computer, che traccia una riga rossa ondulata sotto quelle parole che dal compilatore del programma di correzione sono ritenute sbagliate (e direi che nel 10% circa dei casi sono invece giuste). Purtroppo il correttore non può segnalare come errate tutte quelle parole che, pur contenendo un errore rispetto all’intenzione di chi scrive, coincidono con termini esistenti nel vocabolario italiano caricato nel computer, e così la sua efficacia si riduce di un altro 20% di parole sbagliate non segnalate. Lo scribacchino che si abitua a usare il correttore del computer praticamente non si chiede più il motivo della segnalazione, non va a cercare le “non segnalazioni”, corregge senza pensare e continuerà a ripetere lo stesso errore, aggiungendone altri e senza mai imparare. Sono passati per sempre i tempi (meno di 30 anni fa) in cui un burbero “correttore di bozze” sgridava severamente il preteso “scrittore” o giornalista che persisteva negli errori di ortografia, grammatica o sintassi. Ogni casa editrice per motivi economici si è da tempo privata della figura del “correttore di bozze”, col risultato che libri, giornali e riviste (e servizi televisivi) sono una raccolta di errori vergognosi, che discreditano anche quei collaboratori (sempre più rari) che dimostrano un certo impegno nel lavoro che producono. Verrà il momento in cui sarà più proficuo consegnare a un computer intelligente la “scaletta” degli argomenti essenziali desiderati (hashtag?) e aspettare che ne ricavi un “pezzo”, che allora conterrà “solo” gli errori commessi dal suo correttore grammaticale e sintattico (che non saranno pochi, in ogni caso).

Strafalcioni a iosa
Insomma, la grammatica affidata alle cure di un computer “intelligente” è fatta per “linguisti di bocca buona”, e sono ridicoli quei “sapienti” che consegnano ai blog o ai social media le proprie lamentele sul “degrado” della lingua, che considerano “corrotta” solo quando si lascia contaminare da anglicismi o francesismi. Invece l’introduzione di termini lessicali stranieri è (è sempre stata) provvidenziale e auspicabile. In certi casi per esempio l’Italiano è carente: necessita di tre parole per esprimere “andare a prendere”, dove l’Inglese ha “fetch” e il Francese ha “chercher”. La propria lingua minaccia di corrompersi quando invece si permette che le sue radici e la sua struttura vengano distrutte dall’ignoranza della propria storia (letteraria) e dell’etimologia. A questi aspetti devono prestare attenzione non tanto quei vecchi che la lingua l’hanno appresa solo “in famiglia”, quanto i “meno vecchi”, che pretendono di averla “studiata a scuola”, ma hanno in soffitta i libri di grammatica ancora intonsi (come ho scoperto di averli io stesso). È da questi “meno vecchi” che si sentono e si leggono modi di dire e storpiature abominevoli (come la “cavèa” del teatro, “persuàdere” invece di “persuadére”, e l’indistruttibile “metereologico” (detto da ufficiali e signorine che, per lavoro, leggono le previsioni del tempo) e il ridicolo “accellerato” (che nella versione scritta il computer corregge sempre, ma in quella parlata la “elle” è doppia in quali tutte le regioni). All’ultimo Giro d’Italia il buon corridore promosso telecronista elencava i corridori che “ambiguano” a vincere la tappa; e poi ancora: “il Ministro ha reso noto i provvedimenti approvati dal Consiglio”, e via di questo passo. Insomma, la “lotta” (perduta) ai francesismi e agli anglicismi ha mascherato negli ultimi due secoli il crescente disinteresse per lo studio della propria (e delle altrui) lingue. E si lodano e ammirano, senza cognizione di causa, il giovanotto e la ragazzetta che sono stati con l’Erasmus a Barcellona o a Metz (a studiare “movida”) e rientrano balbettando a beneficio dei genitori, che hanno speso una fortuna, qualche parola comunissima di Inglese (non di Spagnolo o Francese, ovviamente)

“Sarò circonciso”
Ribadisco quindi che sulla grammatica e ortografia nella comunicazione ufficiale c’è molto da eccepire (e spero che resterà per anni nella memoria di molti l’incipit di un deputato che all’inizio del 2019 esordì, serissimo, con “sarò circonciso”, senza essere subissato dalle risate e suscitando solo un commento perplesso del Presidente che nessuno ha sentito). Ho notato ieri in TV un “opinionista politico” che, dopo un momento di esitazione, ha iniziato un intervento col corretto “Ciò che mi stupisce” invece dell’ormai affermato e tragico, perché contagioso, “A me stupisce” (“napoletanismo”?): l’evento raro mi ha proprio incoraggiato a terminare in fretta questo articolo con la speranza di vederlo presto in circolazione, prima che anche quell’ultima “bestia rara” scompaia.

L’indispensabile analisi logica
Passo dunque alla commemorazione di un’altra “cara estinta” della scuola linguistica: l’Analisi Logica. Come materia di studio, l’Analisi Logica fu la “bestia nera” di tanti bambini della defunta Scuola Media Inferiore (credo che oggi si chiami “Scuola Secondaria”), perché, come per tutte le materie, del resto, pochissimi “docenti” si scomodavano a spiegarne il ruolo fondamentale che aveva per l’apprendimento del Latino (e poi eventualmente del Greco), ma soprattutto della lingua italiana, che dal Latino e dal Greco in buona parte deriva. L’abolizione di Latino e Greco dai Piani di Studi Classici ha permesso alle autorità della Pubblica Istruzione di abolire finalmente (non ne vedevano l’ora) anche l’Analisi Logica (o gran parte di essa), ignorando che quanto più se ne sa tanto più si può affermare di conoscere la lingua italiana (e le altre).
Si è già accennato che in una “frase standard” (e attenzione al termine “standard”, che da secoli nessuno in Italia rifiuta, ma a Parigi significa ancora “centralino telefonico”) esiste un elemento principale, che può essere “attivo” o “passivo”, può essere un’intera frase o un sostantivo (o pronome), corredato o no di aggettivi; tale elemento si chiama Soggetto, che può essere esplicito o “sottinteso”, richiamando un soggetto già espresso in precedenza o da esprimere di lì a poco. Una Frase, per essere tale, deve essere formata almeno da un “soggetto” e da un Verbo, che spiega ciò che il soggetto fa, se “attivo”, o subisce se “passivo”. Solitamente la frase si completa con l’indicazione di chi subisce l’azione (se la frase è “attiva”) o “da parte di chi” (l’agente) il soggetto subisce l’azione, se la frase è “passiva”; se la frase è riflessiva, soggetto e “agente” coincidono. Infine la frase contiene informazioni complementari (Complementi) sull’azione espressa dal verbo (che può essere già corredato di Avverbi, che ne precisano l’effetto): per esempio il luogo, il momento, le modalità, le motivazioni, le cause (e gli effetti), l’intensità, la frequenza. Sembra difficile, ma non lo è, se si impara a fare un ragionamento “logico” (da cui il nome di tale analisi) su ogni frammento del discorso individuato dall’Analisi Grammaticale già sommariamente descritta.

La Traviata
Non potendo sviluppare tutto l’argomento in poche righe, fornisco qui un esempio abbreviato di Analisi Logica applicata a un altro brano del libretto della medesima opera La Traviata citata prima; insisto su questo libretto, piuttosto popolare anche dopo due secoli, perché è fra i tanti quello che secondo me meglio si presta a dimostrare come per comprendere un brano “letterario” la nostra mente sia obbligata a fare, quasi inconsapevolmente e in pochi istanti, un esercizio significativo di memoria e di logica.

Ecco il testo originale:
Di Provenza il mar, il suol ~ chi dal cor ti cancellò?
Al natio fulgente sol ~ qual destino ti furò?…
Oh, rammenta pur nel duol ~ ch’ivi gioia a te brillò,
e che pace colà sol ~ su te splendere ancor può.

La “parafrasi”, a cui ho accennato brevemente più sopra, suona più o meno così:
(O figlio), chi ti cancellò dal cuore (memoria) il mare e il suolo della Provenza? Quale destino (sorte) ti ha sottratto (rubato) al sole splendente del suolo natìo? Oh, ricorda che colà un po’ di gioia ti arrise anche nei momenti di dolore, e che ancora oggi solo là ti può splendere la pace.

Le parole sono state riordinate secondo l’analisi logica, che qui spiego brevemente.
Nell’esempio ricavato dal libretto d’opera, un padre rimprovera il figlio per il suo comportamento non conforme all’educazione ricevuta in gioventù in famiglia, in Provenza, e gli dice:
“Chi” (soggetto della frase principale) “ha cancellato” (verbo della frase principale) “dalla tua memoria” (complemento di luogo) “il mare e il suolo” (entrambi complemento oggetto, uniti dalla congiunzione “e”) “della Provenza” (complemento “di specificazione” del luogo in cui fanno parte mare e suolo)?
La seconda frase interrogativa è strutturalmente identica alla prima e perciò, salvo i vocaboli, non è necessario spiegarla.
La terza ha invece un soggetto sottinteso, un verbo (“ricorda”) di Modo imperativo, che introduce, attraverso la Congiunzione “che” una Frase Subordinata alla principale, il cui soggetto è “un po’ di gioia”, che regge il verbo intransitivo “arrise”, che perciò potrebbe stare senza altri complementi; il poeta però ha completato il concetto col Complemento Di Termine “ti”, con il Complemento Di Luogo “colà” e con un Complemento Di Tempo che rievoca i “momenti di dolore”.
L’ultima frase, il cui soggetto è “la pace”, è, a ben vedere, strutturalmente uguale alla subordinata precedente (anche con i medesimi complementi) e ne omettiamo la spiegazione.
Ancora una piccola parentesi: nella spiegazione, parlando di Frase Subordinata, ho invaso il campo Dell’Analisi Sintattica, facendo intendere che esiste una gerarchia fra le frasi, come è evidente nell’esempio studiato: la frase “ricorda che” è Principale e introduce due Subordinate parallele. Mi sia permesso di non spingermi oltre con i dettagli.
Nonostante l’esempio sia stato breve e semplice, spero che ognuno si sia reso conto della difficoltà di ricavarne schemi logici precisi  e che, a meno di non possedere “scienza infusa”, a cui molti credono con la stessa fede con cui gli ambientalisti investono nel “moto perpetuo”, queste nozioni si acquisiscono solo con uno studio lungo e approfondito, possibilmente ben guidato (e quindi certificato da una Laurea, almeno in Scienza della Comunicazione, anche se non è il mio caso).

L’Italiano sopravvive nonostante non sia insegnato a scuola
Eppure, grazie a un’opinione pubblica (e quindi un Giornalismo) che sostiene sistemi politici e movimenti culturali (magari qualificati come “europei”) della più squallida ignoranza, da una trentina d’anni subiamo in Italia l’umiliazione per la quale si può essere “docenti” di materie “umanistiche” (Italiano, Storia, Geografia, storia dell’arte) in Istituti Medi Superiori, senza essere mai entrati in contatto con la Lingua Latina, nemmeno in un solo esame all’Università, magari superata con Lode. Perciò bisogna togliersi dalla testa che il problema attuale sia che la nostra Lingua-Più-Bella-Del-Mondo sia inquinata dal quelle straniere, e rendersi conto che da almeno due generazioni (mezzo secolo) si è cessato di insegnarla e di studiarla. Esortare ad assimilarla in famiglia è un’assurdità, perché non c’è più un nonno o un genitore che la conosca, e soprattutto che abbia voglia di rimediare alla grave lacuna. Ministri della Pubblica Istruzione semianalfabeti o, peggio, analfabeti di ritorno, se ne sono visti, sempre andando di male in peggio, nella maggior parte dei governi degli ultimi 40 anni. E non è detto che la peggiore sia stata la Gelmini, nel 2011, con i suoi “neutrini che percorrono il tunnel che va da Ginevra al Gran Sasso”. A dimostrazione che uno straccio di laurea, purché non contrabbandata dall’Albania o dalla Svizzera, è sempre meglio di un’infarinatura casalinga di Lingua Italiana, soprattutto se inquinata anche dall’Internet, da Windows, da Wikipedia e dalla “Treccani di Google”.

Comments are closed.