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A Gualtie’, sona a chitara e canta “Bella Ciao” ar posto de fa’ er ministro, che è meglio pe’ tutti, dacce retta

Roma – Non sappiamo se il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, si sia reso conto, nelle sue confidenze a La Repubblica, dell’abnormità delle sue affermazioni. “Più che la preoccupazione – ha riferito – in Europa ho registrato sorpresa per il dibattito politico italiano. C’è il pericolo di una percezione di instabilità che rischiamo di pagare sui mercati. Gli investitori non vogliono sentir parlare della possibilità di un ritorno di chi, come Salvini, tifa per Vox e ha messo in discussione l’ancoraggio europeo dell’Italia”.
In questo modo il tradizionale “vincolo esterno” (lo sprono a fare le riforme) cambia pelle. E si trasforma in un’inaccettabile interferenza politica. Cosa che non appartiene alla tradizione italiana. Anche nel periodo più duro della “guerra fredda”, come lo stesso Gualtieri da storico attento potrà confermare, la collocazione a fianco degli alleati americani fu una libera scelta, seppure contrastata, della maggioranza del popolo italiano. Il voto parlamentare che portò all’adesione della Nato, solo per ricordare un episodio, fu marcato da uno scontro in Aula che è rimasto indelebile nella storia istituzionale del Paese. Ma, alla fine, quella volontà collettiva prevalse sui fautori dell’internazionalismo proletario.
L’alibi dell’euroscetticismo, imputato al principale partito politico italiano, va, quindi, fatto cadere rapidamente. La Lega deve far saltare quel tappo, non avendo più quella forza residuale che fu tipica dell’ultima gestione del “senatur”, Umberto Bossi, ma avendo assunto una dimensione nazionale. Il problema è vedere se esistono i presupposti per una diversa presenza nelle istituzioni europee. Se cioè quel “vincolo”, che ha assunto una dimensione non solo economica ma politica, possa essere messo in discussione. Per rispondere, va ricordato che la sua esistenza è soprattutto legata all’incapacità dei vari ministri dell’Economia (da Pier Carlo Padoan allo stesso Gualtieri, senza dimenticare Giovanni Tria) di leggere correttamente i dati della situazione italiana, alla luce delle stesse elaborazioni della Commissione europea.
Nel database, che accompagna le sue Previsioni periodiche, vi sono tanti di quegli elementi che sono in grado di rovesciare un approccio più che convenzionale. Che l’Italia ha assorbito rinunciando a qualsiasi riflessione critica. Ma limitando la sua osservazione, quasi esclusivamente, ai dati della situazione finanziaria: soprattutto andamento del deficit di bilancio e del rapporto debito-Pil. Come se fosse questo il cuore della questione e non il riflesso di sottostanti processi di carattere economico e sociale. Che lo Stato, con le sue scelte, condizioni la situazione più generale, è un dato di fatto. Che dagli altri elementi, che compongono il quadro, si possa prescindere è un’assurdità. Oltre che un errore di prospettiva.
Se si guarda a questo orizzonte più ampio, lo storico problema del “che fare?” diventa più semplice da risolvere. La prima variabile è il tasso di crescita. L’Italia è vittima di una stagnazione che data dall’inizio del Terzo millennio, ed anche oltre. L’ultimo dato positivo, salvo una sola eccezione, risale al 1988. Il governo Craxi. Da allora è stato un lento e continuo declinare, che l’ha sempre collocata all’ultimo posto delle classifiche internazionali. Se l’economia non cresce a un ritmo soddisfacente, non sono solo le famiglie ad entrare in sofferenza. Le stesse entrate dello Stato diminuiscono, facendo venir meno le risorse che sono indispensabili per garantire servizi e copertura delle altre spese. Quindi, essendo queste ultime difficilmente comprimibili, il deficit aumenta. E di conseguenza il debito pubblico, specie in rapporto ad un Pil che non fa crescere il denominatore.
C’è poi l’aggravante di prezzi eccessivamente contenuti: riflesso di una stagnazione, che vira continuamente verso la deflazione. Se Mario Draghi ha giustificato la sua politica monetaria, inseguendo il target di un’inflazione al 2 per cento, non si capisce, perché, in Italia non si dovrebbe fare altrettanto.
La dimostrazione sta nel fatto che dal 2000 al 2008, grazie a questa spinta, il rapporto debito-Pil, per la prima volta, dopo molti anni, aveva raggiunto una soglia inferiore al 100 per cento. Oggi siamo al 135,7. A dimostrazione che, se l’economia non cresce, tutto il resto va in malora.
L’aspetto più drammatico di questa situazione è la persistenza del relativo tasso di disoccupazione. Specie giovanile, di cui, a sinistra, ci si riempie la bocca, salvo poi incrociare le braccia. Cornuti e mazziati. Dagli inizi degli anni 2000, l’Italia si è collocata al quart’ultimo posto nel range costituito dai 30 Paesi, analizzati dalla Commissione: Europa a 27, più Stati Uniti, Giappone e Regno Unito. Peggio dell’Italia stanno solo Grecia, Spagna ed Ungheria. Ma dal 2018 in poi la situazione di questi ultimi è migliorata di circa 3 punti percentuali. In Italia la disoccupazione è scesa solo dello 0,6 per cento di media all’anno. Con l’aggravante che tutte queste realtà presentano un attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti ben più contenuto rispetto all’Italia. Dati che mostrano, comunque, un uso improduttivo del risparmio disponibile.
Se questo è il quadro, il cambiamento di prospettiva è nelle cose. L’Italia, nel confronto con l’Europa, deve rovesciare l’ordine delle priorità. Non partire dalla preventiva fissazione di un deficit di bilancio o di rapporto debito-Pil, ma da un tasso di sviluppo programmatico, per poi rivederne le ricadute sugli assetti complessivi di finanza pubblica. Ed accompagnare questa previsione con la puntuale esplicitazione delle riforme che intende perseguire. A partire da quella fiscale, che è la madre di tutte le battaglie. Ci saranno resistenze? Certo che ci saranno. Ma se Mario Draghi avesse abbandonato la partita, forse, oggi, l’euro sarebbe solo un ricordo del passato.

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