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Quanta scienza ha prodotto la pandemia?

di Maria Magistroni (Wired) – In meno di un anno di pandemia, per la precisione da gennaio a ottobre 2020, i ricercatori di tutto il mondo hanno prodotto qualcosa come 87mila lavori scientifici solo sul coronavirus. Una cifra impressionante, senza precedenti nella storia della scienza. A riferirlo è l’ultima analisi della Ohio State University, in collaborazione con la Zhejiang University (Cina) e l’università delle Hawaii, pubblicata sulla rivista Scientometrics, che rileva anche come i contributi da diversi paesi siano cambiati nel tempo.

Boom di studi
Attingendo a diversi database scientifici, gli autori dell’analisi hanno contato 4.875 articoli scientifici a tema coronavirus fino a metà aprile 2020, che sono passati a 44.013 a metà luglio per poi schizzare a 87.515 agli inizi di ottobre. Non si ha memoria di qualcosa di simile nella storia della scienza. Basti pensare che per raggiungere un numero simile di pubblicazioni alla scienza nanometrica (argomento mainstream dagli anni ‘90) ci sono voluti 19 anni.

Meno infezioni, meno contributi
Gli scienziati hanno anche notato che nell’arco di 10 mesi è cambiata la provenienza degli studi sul coronavirus. Se, come già registrato da un’analisi precedente pubblicata su Plos One, all’inizio della pandemia i paesi più dediti alla ricerca sul coronavirus erano Cina e Stati Uniti, nel tempo la superpotenza asiatica si è un po’ defilata: quando i tassi di infezione hanno cominciato a ridursi, si sono ridotti anche i contributi cinesi alle conoscenze sul virus. Volendo tradurre in cifre, tra l’1 gennaio e l’8 aprile 2020 gli studi cinesi rappresentavano il 47% delle pubblicazioni mondiali, ma tra luglio e ottobre erano solo il 16%.
I motivi, secondo gli autori dell’analisi, possono essere diversi. Un grosso investimento in ricerca da parte del governo cinese (ma non è stato certo l’unico) ha dato l’impressione di voler agire e non rimanere immobili di fronte all’ignoto, ma quando la minaccia è scemata anche l’impulso economico alla ricerca lo ha fatto. Inoltre ben presto il governo cinese ha imposto che ogni articolo sul coronavirus ricevesse l’approvazione da parte dei propri funzionari prima di poter fare richiesta di pubblicazione. Questo potrebbe da una parte aver inibito i ricercatori, dall’altra fermato molti studi prima che potessero essere condivisi con la comunità scientifica internazionale.
Viceversa gli studi statunitensi sul coronavirus sono passati dal 23% al 33% del totale nel periodo considerato nell’analisi.

In pochi si fa prima
Un altro punto sorprendente è stato constatare che le dimensioni dei team di ricerca, anziché accrescersi, si sono invece ridotte. Alla collaborazione, insomma, si è anteposta la necessità di arrivare a dei risultati più rapidamente, e gruppi più piccoli rendono più facile lavorare velocemente.
Anche le collaborazioni internazionali sono calate: l’impossibilità di incontrarsi fisicamente ai convegni e gli attriti tra paesi (Cina e Stati Uniti in testa) potrebbero aver influito negativamente.

 

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