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Zingaretti si dimette da segretario del Pd

Roma (Agi) – “Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”.
Lo scrive su Facebook, Nicola Zingaretti. “Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente. L’Assemblea Nazionale farà le scelte più opportune e utili”.
“Io ho fatto la mia parte, spero che ora il Pd torni a parlare dei problemi del Paese e a impegnarsi per risolverli. A tutte e tutti, militanti, iscritti ed elettori un immenso abbraccio e grazie” ha detto Zingaretti.
Due anni fa Nicola Zingaretti è stato eletto segretario del Partito Democratico e oggi, distanza di due anni esatti, il Pd si ritrova con un segretario dimissionario. Di fronte al bombardamento continuo che arriva dagli eletti di Base Riformista e da Matteo Orfini, con la prospettiva di farsi logorare e logorare il partito, annuncia le sue dimissioni.
Lo fa, tra l’altro, alla vigilia di una assemblea (il 13 e 14 marzo) chiamata a decidere fra un congresso delle idee, sulla collocazione e l’identità del partito, e un congresso sulla leadership e, quindi, sul segretario stesso.
Era il 3 marzo 2019 quando, al termine di un iter congressuale durato quasi un anno, si celebrarono le primarie che videro trionfare il governatore del Lazio con il 66% dei voti. Zingaretti si presentava allora con la mozione Piazza Grande e lo slogan “Nicola Zingaretti, per cambiare”. Suoi avversari erano i renziani Roberto Giachetti e Anna Ascani, che si presentavano in tandem (12%), e la lista del segretario uscente, eletto in assemblea dopo le dimissioni di Matteo Renzi, Maurizio Martina (22%).
Un assetto che non rispecchia quello parlamentare: prima della sconfitta del 2018, infatti, Matteo Renzi redasse le liste sulle quali sarebbero stati composti i gruppi alla Camera e al Senato. Il risultato è che la maggioranza di questi gruppi è assai diversa da quella degli organi statutari del Partito Democratico, a larghissima maggioranza zingarettiana. Non solo: oggi fra i gruppi è molto forte la componente di Base Riformista che, però, non era presente al precedente congresso: i suoi aderenti erano, infatti, sparsi fra le file renziane.
Solo dopo la scissione del partito operata da Renzi, con la nascita di Italia Viva, Luca Lotti e Lorenzo Guerini ritennero necessario dare vita ad un’area “liberale e moderata” per contenere – si diceva allora – le spinte centrifughe che avrebbero portato il partito troppo a sinistra. In Base Riformista si accasarono la maggior parte degli ex renziani. La maggior parte, ma non tutti. Consapevole di dover creare un filo diretto con i gruppi parlamentari e spinto dalla sua naturale propensione al dialogo e alla mediazione, Zingaretti ha inseguito da subito la stella dell’unità interna del partito.
Così, si è ben guardato dal cambiare i capigruppo parlamentari scelti da Renzi, lasciando Graziano Delrio e Andrea Marcucci (tra i primi a chiedere un congresso che rimettesse in discussione il segretario) al loro posto.
Soprattutto, Zingaretti ha formato l’ufficio di presidenza del Pd e la sua segreteria attingendo alle fila ex renziane, ora Base Riformista. Anna Ascani, competitor di Zingaretti all’ultimo congresso, è divenuta così vice presidente del partito. Con il Conte II, inoltre, Ascani diventa sottosegretaria, prima, e viceministra poi dell’Istruzione. Il governo Draghi la vede, infine, sottosegretaria di stato al Ministero dello Sviluppo Economico. Insomma, partita come ultra-renziana, Anna Ascani, oggi appare come una delle dirigenti più apprezzate dal segretario Pd.
Sempre inseguendo l’unità del partito, Nicola Zingaretti ha puntato molto sul rapporto con Lorenzo Guerini che di Base Riformista è uno dei leader assieme a Luca Lotti. Un rapporto fra due “pontieri”, si potrebbe dire, dato che entrambi gli esponenti sono considerati i campioni della mediazione interna. Un rapporto che ha portato Guerini a ricoprire il ruolo di ministro della Difesa con il governo rosso-giallo, poi riconfermato dal premier Mario Draghi.
Gli scossoni seguiti al ‘crack’ del governo Conte II, però, non hanno risparmiato questo rapporto e Guerini ha chiesto, assieme a tutta la sua corrente, di procedere all’indizione del congresso “non appena ce ne saranno le condizioni”, ovvero dopo le amministrative – che si terranno in ottobre – e al termine dell’emergenza pandemica. Movimenti interni che non rendono facile ‘pesare’ con esattezza le correnti del Pd interne all’assemblea che si riunirà a metà marzo.
Considerato l’addio dei renziani, dopo la scissione, e la scomposizione dell’area che faceva capo a Maurizio Martina, confluita nella maggioranza interna, la componente di Base Riformista si potrebbe accreditare fra il 15 e il 18%. Nel 70-75% accreditato a Zingaretti si trovano i componenti di Areadem (la corrente di Dario Franceschini), l’area Orlando, l’area Martina e l’area Ascani. Una maggioranza tale da poter anche respingere le dimissioni del segretario e chiederne una riconferma proprio in assemblea, senza passare dal congresso. Ma questa e’ una partita che, eventualmente, si gioca in punta di statuto. Al momento, l’unica cosa certa, è che con le dimissioni di Zingaretti termina anche la gestione unitaria e nel partito potrebbe aprirsi una fase di tutti contro tutti dagli esiti imprevedibili.

 

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