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Al processo per il crollo del Ponte Morandi sarà la scarsa manutenzione il leitmotiv del dibattimento

Genova – In oltre cinquant’anni dalla sua costruzione nessuno aveva mai rinforzato il punto più critico del Ponte Morandi. Questo perché l’obiettivo era risparmiare tagliando le manutenzioni, un onere così invasivo da indurre il gestore “a prendere in considerazione la possibilità di demolire il manufatto nel 2003”. Le omissioni sono diventate macroscopiche con la privatizzazione del concessionario, che ha massacrato gli investimenti in prevenzione nonostante i suoi azionisti si spartissero utili che rasentavano talvolta il miliardo annuale. E non è tutto perché il rischio che i tiranti si corrodessero, al contrario di quanto previsto dal progettista Riccardo Morandi, era noto già da tantissimo tempo, dal 1975, otto anni dopo l’inaugurazione, in un dossier noto a vari livelli societari, al punto che il premio assicurativo per l’eventuale scempio era via via lievitato passando da 100 a 300 milioni a partire dal 2016. È il quadro venuto fuori nell’avviso di conclusione dell’indagine preliminare inviato a 69 persone fra dirigenti e tecnici di Autostrade per l’Italia e Spea Engineering accusati per la strage in cui morirono 43 persone il 14 agosto 2018 a Genova.
A mettere tutto nero su bianco sono stati il procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio e i sostituti Massimo Terrile e Walter Cotugno.
Gli addebiti sono a vario titolo di omicidio stradale plurimo, crollo doloso, falso, attentato alla sicurezza dei trasporti.
Secondo quanto scritto dai Pm, “Tra il battesimo del 1967 e il crollo, per ben 51 anni, non era stato eseguito il minimo rinforzo sugli stralli, i tiranti ndr, del pilone numero 9, quello poi collassato. E, nei 36 anni e 8 mesi intercorsi fra il 1982 e il disastro, gli interventi strutturali compiuti sul viadotto Polcevera avevano avuto un costo complessivo di 24.578.604 euro. Di questi, 24.090.476 (cioè il 98,01%) erano stati spesi dal concessionario pubblico e solo 488.128 euro (cioè l’1,99%) dal concessionario privato. La spesa media annua del pubblico era stata di 1.338.359 euro (3.665 al giorno), quella del privato di 26.149 (71 euro al giorno), con un decremento pari al 98,05%. La situazione non era giustificabile, per il medesimo gestore privato, con l’insufficienza delle risorse finanziarie, dal momento che aveva chiuso tutti i bilanci dal 1999 al 2005 in forte attivo, con utili compresi tra 220 e 528 milioni circa, e che tra il 2006 e il 2017 l’ammontare degli utili conseguiti da Aspi è variato tra un minimo di 586 e un massimo di 969 milioni, distribuiti agli azionisti in una percentuale media attorno all’80% e sino al 100”.
A finire nell’occhio del ciclone è l’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci che, secondo quanto scritto dai magistrati, “Poneva in pericolo la sicurezza dei pubblici trasporti e cagionava, non impedendolo, il crollo della pila 9 e del collegato tratto autostradale di circa 240 metri… dovuto alla rottura per corrosione dei cavi portanti all’interno dello strallo lato mare/Genova, nel tratto terminale di collegamento alla sommità dell’antenna, e in conseguenza del quale trovavano la morte 43 persone”. E strettamente collegato è l’atto d’accusa alla società Autostrade nel suo complesso, indagata ai sensi della legge sulla responsabilità amministrativa per “omicidio colposo in violazione delle norme sulla sicurezza nei posti di lavoro e falso informatico”.
Reati commessi, per gli inquirenti, “nel suo interesse e a suo vantaggio, consistente nel risparmio derivante dai mancati, o comunque insufficienti, investimenti nelle attività di sorveglianza e di manutenzione delle opere d’arte della rete autostradale e in particolare del viadotto Polcevera, e nel conseguente incremento degli utili distribuiti ai soci, anche da persone che rivestivano funzioni apicali di amministrazione e direzione”.
Il riferimento è all’amministratore delegato Giovanni Castellucci, al responsabile dell’ufficio centrale operazioni Paolo Berti e al capo nazionale delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli.
Tra i dirigenti ministeriali nel mirino, poiché avallarono un progetto di restyling contenente agli occhi di chi indaga dati inquietanti, figura invece tra i più alti in grado il provveditore alle opere pubbliche per Piemonte e Liguria Roberto Ferrazza. E fra gli addebiti rivolti a chi lavorava nella galassia del Mit c’è pure quello d’aver sorvolato su un “documento informale” del consulente Antonio Brencich, che descriveva “degrado impressionante”.
Francesco Cozzi, capo della Procura, ribadisce: “Abbiamo insistito sull’omicidio stradale perché la sicurezza dell’autostrada è un interesse-diritto degli utenti, nei confronti di chi gestisce il servizio per effetto d’una concessione”.
Da parte sua Egle Possetti, portavoce del comitato che riunisce i familiari delle vittime, si augura che la politica, di fronte alla gravità dei capi d’imputazione, “faccia riflessioni forti sul tema delle concessioni. Questa è una vergogna che ci ha colpiti come Paese e ci aspettiamo a breve che possa partire il processo. Abbiamo fiducia, ma spesso in Italia i tempi sono lunghi e il finale non è adeguato al peso sostenuto dalle famiglie di chi ha perso la vita. Le informazioni contenute nell’avviso di conclusione delle indagini danno già il senso della gravità di quanto accaduto. Ed è anche alla luce delle contestazioni che, in maniera non strumentale e convinta, abbiamo chiesto che il memoriale in ricordo delle vittime sia realizzato con i soldi dello Stato, poiché anche da lì è mancata la garanzia di sicurezza per i cittadini”. Dopo l’avviso di chiusura inchiesta, gli indagati hanno venti giorni per chiedere d’essere interrogati, poi i pm formuleranno la richiesta di rinvio a giudizio e sarà fissata l’udienza preliminare. L’obiettivo degli inquirenti è avviare il dibattimento entro la fine del 2021.
Decine di studi, alcuni firmati dal supercapo nazionale delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli, oggi ritenuto tra i principali responsabili del crollo, e in un caso presentati a un convegno internazionale a Shanghai dove si descriveva “degrado diffuso su tutti i tiranti” mettevano in luce le anomalie, ma nessuno intervenne. E le verifiche sul viadotto sono state sottratte con vari stratagemmi al Consiglio superiore per i lavori pubblici. Inoltre le valutazioni sui rischi contenuti erano aggiornate di anno in anno “con il copia-incolla” e gli screening che andavano compiuti sul posto erano eseguiti in realtà “mediante binocoli e cannocchiali”. È davvero agghiacciante il quadro emerso sugli allarmi ignorati e i depistaggi nelle carte della Procura. Che inanella il dettaglio di tutti i dossier realizzati a partire dal 15 luglio 1975 all’interno del gruppo Autostrade: “Accertato che gli agenti corrosivi erano penetrati attraverso le fessurazioni del calcestruzzo precompresso interessando i cavi, non esisteva alcuna tecnologia in grado di fornire certezze circa la progressione nel tempo della corrosione stessa… pertanto i medesimi cavi dovevano essere necessariamente sostituiti sul pilone 9 come quelli della pila 11, esterni e visivamente ispezionabili per tutto il loro sviluppo. Le uniche indagini diagnostiche eseguite tra 19 e 29 novembre 1990 e 12-13 giugno 1991 sugli stralli del pilone 9 (quello crollato), pur parziali e inadeguate, avevano individuato… cavi scoperti, guaine ossidate, infiltrazioni e trefoli rotti”.
Ma non si fece alcuna verifica fino ad ottobre 2015 quando “erano state eseguite verifiche sulla pila 9, che davano chiarissimi segnali d’allarme”. Al contrario, le ispezioni di Spea o da questa delegate a Cnd e Most “erano palesemente inattendibili, giacché in molti casi evidenziavano impossibili riduzioni del livello di degrado e, per errori nelle operazioni di copia-incolla, riferivano a una determinata prova i risultati di un test diverso per anno e oggetto”.
Aspi e Spea “non disponevano della documentazione tecnica necessaria all’adeguata conoscenza del manufatto, non avevano inserito i sensori raccomandati dai consulenti e avevano ignorato anche i riscontri comunque negativi forniti dai pochi dispositivi posizionati. Non erano mai state svolte le verifiche di stabilità e sicurezza del viadotto, previste da specifiche circolari del ministero, e si era fatto passare il progetto di restyling dei tiranti del pilone 9, fatalmente rinviato per anni, come intervento locale per sottrarre il viadotto al controllo di Roma”.

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