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La cittadella di Alessandria assediata. Dai rifiuti (Video)

Riprendiamo un articolo di Gian Antonio Stella pubblicato stamane da Il Corriere della Sera che riguarda la nostra città e la sua cittadella, il forte, gioiello d’architettura bellica del Piemonte, aggredito anche da piante infestanti. Qui sventolò il 10 marzo 1821, per la prima volta nella storia d’Italia, il Tricolore

di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera) – Un machete. Ecco cosa ci vorrebbe per solcare come Indiana Jones la giungla infestante che sbarra fino ai tetti certi passaggi tra una caserma e l’altra della Cittadella d’Alessandria. Che vergogna… C’è da arrossire davanti alle discariche di immondizia tra i ruderi degli edifici crollati. Alle vagonate di amianto, frigoriferi scassati e rifiuti velenosi abbandonati in un capannone in disuso dalla saracinesca sventrata. Ai resti di libri bruciati buttati qua e là. Alle tegole schiantatesi a terra dove “per legge non si possono toccare”. Alle muraglie di vegetazione dietro le quali puoi solo intuire l’esistenza dei bellissimi bastioni settecenteschi. Agli alberelli che spuntano tra i comignoli. Agli alberi che si sono ingoiati i tetti facendoli crollare.
“Colpa del Paradiso”, sorridono amari Ileana Spriano, Sergio Serafini e i volontari del Fondo Ambiente Italiano che da dieci anni si prendono cura della fortificazione abbandonata. Meglio: dell’ailanto, “la pianta del Paradiso” di origine orientale introdotta a metà del 1700 ai tempi in cui il Piemonte basava buona parte delle sue fortune sulla produzione di seta. Pianta all’epoca donatrice di prosperità, ma infestante. Radici lunghissime. Stupefacente rapidità di crescita. Ti distrai, parte e non la tieni più. Al punto che può arrivare fino a trenta metri d’altezza: quella di un palazzo di dieci piani.
Troppo comodo, però, scaricare tutto sull’ailanto: i primi responsabili del disastro storico, ambientale, culturale, sono infatti coloro che se ne sono occupati a partire dal 1994, l’anno della disastrosa alluvione in Piemonte. Quando la Cittadella, costruita a partire dal 1728 e considerata “un capolavoro di arte militare unico nel suo genere, con il suo complesso di mura e fossati, a forma di stella a sei punte che diventano dodici nella cerchia esterna”, fu invasa dall’onda di piena del Tanaro. Un disastro. Che spinse i militari a decidere di dismettere un po’ alla volta il bellissimo presidio logistico e passarlo ai civili. Da un demanio a un altro, stesso Stato. Disastro bis: il primo cominciò a trascurare la proprietà che stava lasciando, il secondo ad attendere di avere la piena proprietà di tutto prima di darsi una mossa. Risultato: quando l’ultimo dei militari, Maurizio Sciaudone, se ne andò nel 2007 (per diventare un nemico della sciatteria amministrativa) era già in condizioni pessime. Destinate a peggiorare per l’assenza, a eccezione di un edificio preso in carico dai Bersaglieri per un loro museo e un’altra palazzina presa dai Beni Culturali, di manutenzione.
Finché nel 2011, grazie anche a una denuncia del “Corriere”, il vuoto fu appunto interrotto dal Fai il quale, d’accordo con il Comune che mise 150 mila euro, cominciò a prendersi cura del complesso monumentale. Un’azione proseguita negli anni grazie al progetto “Cittadella senza sbarre” del 2012 che prevedeva, d’intesa con Comune e Istituti Penitenziari, che le carceri alessandrine individuassero detenuti disposti a collaborare per la salvezza di quel patrimonio che andava in malora. Obiettivo centrale: “Il contenimento e l’estirpazione dell’ailanto”.
Quello è il punto: quella bella ma mefitica pianta infestante ha trovato nella Cittadella un ambiente ideale. Anche sui tetti. Tra la copertura e le tegole, infatti, gli edifici del complesso hanno storicamente uno strato di sabbia e di terra per contenere i danni causati da un eventuale colpo di cannone. I militari lo sapevano. E via via che spuntava una piantina la rimuovevano prima che crescesse. La dissennata indifferenza al problema, in perenne attesa d’un grande e straordinario intervento risolutivo (perché mai spendere pochi spiccioli al giorno invece che aspettare un megaprogetto di archistar e appalti milionari?) era stata catastrofica.
Sei anni dopo il riavvio della manutenzione, nel 2018, le cose andavano meglio. Ma la scelta di “rallentare” il coinvolgimento a rotazione di una decina di detenuti (un centinaio in tutto, peraltro lodati per la dedizione) e le chiusure dovute alla pandemia hanno interrotto il percorso. Con danni incalcolabili. Dicono tutto le nostre foto, scattate la settimana scorsa. Giudicate voi.
C’è chi dirà, sdrammatizzando: proprio lunedì 14 scade un bando di Invitalia per “l’affidamento dei servizi tecnici propedeutici alla realizzazione dell’intervento di “conservazione e valorizzazione della Cittadella militare di Alessandria”. Totale: 1.391.117,99 euro più Iva. Evviva? Niente affatto: sono solo soldi iniziali e “propedeutici” per poi cominciare chissà quando (campa cavallo!) i lavori veri e propri. E arrivano (se arrivano) cinque anni dopo l’impegno nel marzo 2016 di Dario Franceschini per lo stanziamento di 25 milioni mai arrivati. Più altri 5 della Regione, mai arrivati neppure quelli, denunciano gli ambientalisti. Cinque anni: quanto impiega una “pianta del Paradiso” a crescere di tre metri e più. Quanto c’è da aspettare ancora: un altro decennio, due, tre?
Aveva ragione Guido Ceronetti. Quando all’inizio degli anni Ottanta, stremato da quanto era stato costretto a vedere, scriveva nel suo Un viaggio in Italia parole sconsolate: “C’è qualcosa d’immorale nel non voler soffrire per la perdita della bellezza, per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione, non più capace di essere lume nel mondo”.
E non è solo una questione di patrimonio architettonico o monumentale. Quella straordinaria Cittadella d’Alessandria oggi lasciata al degrado è stata un po’ la Betlemme dell’Italia. Perché fu lì, il 10 marzo 1821, che sventolò il primo tricolore del nostro Paese. C’è chi ha scritto che i tre colori non erano ancora il bianco, il rosso e il verde e che non erano verticali ma orizzontali: può darsi, ma era la prima bandiera scelta per l’Italia. E il colonnello Guglielmo Ansaldi, che aveva preso il comando della piazzaforte, tuonò: “Cittadini, lo stendardo del dispotismo è per sempre curvato a terra fra noi. La patria che ha gemuto finora sotto il peso di obbrobriose catene, respira finalmente l’aure soavi di fraternità e di pace. Cittadini! L’ora dell’italiana Indipendenza è suonata!”.
Come andò a finire si sa. Gli idealisti che avevano puntato tutto (“Se ci allontaniamo per poco dalle leggi di militare disciplina vi siamo trascinati dal supremo bisogno della patria…”) sulla presunta volontà di Carlo Alberto di avviare un processo costituzionale e spingere per l’unità d’Italia furono traditi nei loro ideali, nelle loro speranze, nei loro sogni. Peggio: duecento anni dopo la patria per la quale spesero la vita, anche andando a morire per la libertà altrui come Santorre di Santarosa in Grecia, non si è manco ricordata di loro. D’accordo, c’era il Covid. Però…

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