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Il business degli incendi: come si crea un’economia per ora inattaccabile

di Antonio Amorosi – “L’autocombustione non esiste”, aveva spiegato qualche anno fa Roberto Pennisi della Procura Nazionale Antimafia. Ma noi preferiamo credere di sì, così come alla panzana che sarebbe il riscaldamento climatico a scatenare la furia degli incendi in Italia. “Antonio, fa caldo!”, diceva una pubblicità di qualche anno fa. Solo quest’anno sono stati bruciati 103.000 ettari di verde e siamo a metà agosto.
Per Pennisi dietro gli incendi in Italia ci sono sempre interessi criminali, piccoli e grandi, che a volte si intrecciano, altre volte coprono reati differenti, soprattutto nel settore dei rifiuti: bruciato tutto spariscono anche montagne di materiali nocivi. Ma non è l’unico a crederlo. Già nel 2001 gli 007 del Sisde insistevano sulla presenza delle mafie nelle ricostruzioni post incendio in ogni angolo del Belpaese. Nelle relazioni della Dia nazionale si ripetono le stesse affermazioni, praticamente da sempre. Nel 2017 i dati governativi mostrano che il 54% dei focolai appiccati in tutta Italia avvengano nelle regioni Campania, Calabria, Puglia e Sicilia. E poi c’è il business dei rimboschimenti, dove i forestali stagionali assunti fanno da bacino di voti e le mafie coordinano chi organizza le operazioni di appiccamento. In molti casi sono proprio i forestali stagionali, coloro che dovrebbero proteggere i boschi, ad accendere i roghi, per poter lavorare e far ricevere contributi al settore, muovendo così un indotto importante.
Solo in Sicilia si calcola che si spendano 400 milioni di euro all’anno per il rimboschimento, in Campania, nel 2017, 50 milioni di euro. Il costo del rimboschimento è alto, dai 2.000 ai 5.000 euro a ettaro.
I numeri d’altronde sono impietosi. I forestali stagionali italiani si muovono sotto la cifra delle 70.000 unità, 20.000 o qualcosa di più solo in Sicilia. Gli addetti siciliani coprono l’intera Norvegia, dove a proteggere le foreste ci sono 20.000 persone per un territorio di 385.207 km² di cui il 40% in foreste. I nostri 70.000 proteggono brillantemente, come vediamo da decenni, 301.340 km² di territorio di cui il 35% in foreste, un’estensione ben più piccola della Norvegia.
La stima del responsabile di Legambiente Antonino Morabito pubblicata da “La Presse” è che per il 2021 ci siano stati tra i 20 e i 24 milioni di animali selvatici morti. Un vero ecocidio tra mammiferi, rettili e uccelli uccisi. Per Legambiente nel 2020 il territorio nazionale bruciato è cresciuto del 18,3%, +8,1% di reati accertati tra incendi dolosi e colposi rispetto al 2019. Sono stati distrutti complessivamente 62.623 ettari. Ben l’82% della superficie boscata e non boscata è stata data alle fiamme, con il 54,7% degli illeciti rilevati che si concentrano sempre nelle solite Campania, Sicilia, Calabria e Puglia. Se si intervenisse in modo massivo in quelle regioni, più Sardegna e Abruzzo, si potrebbe risolvere o limitare in modo radicale il problema.
Solo lo spegnimento degli incendi costa all’Italia mezzo miliardo di euro all’anno. La dinamica complessiva è ormai una presa in giro. In realtà nessuno vuole davvero mettere mano ad un settore che garantisce un business. Si distrugge il territorio senza produrre nulla ma con l’intervento riparatore dello Stato si foraggia un’economia dell’aiuto che muove ecologia, edilizia e cemento, gestione dei rifiuti. Eppure con tanti addetti ai lavori impiegati basterebbe poco per evitare un ecocidio ogni anno. Occorrerebbe istituire un catasto degli incendi e un governo dei processi coordinato tra Stato centrale e Regioni, integrando i meccanismi di controllo, aumentando la repressione ma anche le misure di intervento che ragionino sui ripristini inserendoli dentro piani regolatori, lontano cioè da politiche emergenziali, quelle che vediamo ogni anno.
Un processo del genere però non conviene a nessuno. E sembra impossibile per qualsiasi governo. Troppa economia e troppi voti si muovono intorno a un business estremo che prende forma e sostanza ogni anno uguale a se stesso.

 

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