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Per il Censis la nostra società è ingiusta e irrazionale

di Renzo Penna – Il 55° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese sta facendo molto discutere per la parte relativa agli elementi di “irrazionalità” che una quota non piccola di italiani manifesta. Rimanendo su temi di pregnante attualità, quasi il 6% (circa 3 milioni di persone) pensa che il Covid non esista, per il 10,9% il vaccino è inutile e inefficace, mentre il 12,7% ritiene che la scienza produca più danni che benefici. Avendo seguito un poco le rivendicazioni, i proclami e le proteste dei no-vax, debbo confessare che mi sarei aspettato anche risultati con percentuali maggiori. In ogni caso un fenomeno, quest’ultimo, che non riguarda solo il nostro Paese, ma, e in maniera maggiore, tutte le nazioni del cosiddetto “mondo sviluppato”. Il Rapporto osserva, poi, una poco ragionevole disponibilità dei cittadini nel credere a superstizioni, teorie infondate e speculazioni complottiste: il 5,8% è sicuro che la Terra sia piatta e il 10% è convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna. Ma una più cospicua e, anche per questo, pericolosa parte di connazionali, il 39,9%, condivide la teoria del “gran rimpiazzamento”, cioè della sostituzione etnica: identità e cultura nazionali spariranno per l’arrivo degli immigrati, portatori di una demografia dinamica rispetto agli italiani che non fanno più figli, e tutto ciò accade per interesse e volontà di presunte élite globaliste.
Le manifestazioni irrazionali degli italiani, naturalmente, sottendono profonde ragioni di natura sociale ed economica ed è a queste che i capitoli del 55° Rapporto dedicano analisi e prospettano possibili soluzioni. Di particolare interesse quelli che si occupano di “lavoro, professionalità, rappresentanze” e del “sistema di welfare”.
La fuga nell’irrazionale è sovente l’esito di aspettative soggettive, ancorché legittime, rimaste insoddisfatte. Infatti, l’81% degli italiani ritiene molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto nella vita l’investimento di tempo, energie e risorse profuso nello studio. Il 35,5% è convinto che non conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento.

Per la maggioranza si viveva meglio nel passato
Per i due terzi degli italiani (il 66,2%) nel nostro Paese si viveva meglio in passato. Per il 51,2%, malgrado il robusto rimbalzo del Pil di quest’anno, non torneremo più alla crescita economica e al benessere della seconda metà del secolo scorso. Il Pil dell’Italia era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del 26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, poi del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio e dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, prima di crollare dell’8,9% nel 2020. Negli ultimi trent’anni di globalizzazione, tra il 1990 e oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia. Un arretramento che non si è verificato neppure in Grecia e in Spagna. L’82,3% degli italiani pensa di meritare di più nel lavoro e il 65,2% nella propria vita in generale. Il 69,6% si dichiara molto inquieto pensando al futuro, e il dato sale al 70,8% tra i giovani. Solo il 15,2% degli italiani ritiene che dopo la pandemia la propria situazione economica sarà migliore. Per la maggioranza (il 56,4%) resterà uguale e per un consistente 28,4% peggiorerà.
Per quanto attiene alla domanda e all’offerta di lavoro, quasi un terzo degli occupati possiede al massimo la licenza media. Sono 6,5 milioni nella classe di età 15-64 anni. Anche tra i poco meno di 5 milioni di occupati di 15-34 anni quasi un milione ha conseguito al massimo la licenza media (il 19,2% del totale), 2.659.000 hanno un diploma (54,2%) e 1.304.000 sono laureati (26,6%). Considerando gli occupati con una età di 15-64 anni, la quota dei diplomati scende al 46,7% e quella dei laureati al 24,0%. Un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che coinvolge anche un numero rilevante di laureati e offerte di lavoro non orientate a inserire persone con livelli di istruzione elevati indeboliscono la motivazione a fare investimenti nel capitale umano. Non a caso l’83,8% degli italiani ritiene che l’impegno e i risultati conseguiti negli studi non mettono più al riparo i giovani dal rischio di dover restare disoccupati a lungo.

La pandemia ha accresciuto le diseguaglianze e il bisogno di welfare
Nella pandemia sono aumentale le diseguaglianze e si è registrato un picco di nuove povertà. Nel 2020 due milioni di famiglie italiane vivono in povertà assoluta, con un aumento rilevante rispetto al 2010, quando erano 980.000: +104,8%. L’aumento è sostenuto soprattutto al Nord (+131,4%), rispetto alle aree del Centro (+67,6%) e del Sud (+93,8%). Tra le famiglie cadute in povertà assoluta durante il primo anno di pandemia, il 65% risiede al Nord, il 21% nel Mezzogiorno, il 14% al Centro. Il disagio sociale ha assunto anche forme inedite, materializzandosi nel rapporto non sempre facile con il digitale sperimentato da quote significative della popolazione. In Italia cinque milioni di lavoratori percepiscono un salario inferiore ai 10 mila euro lordi l’anno. Tra disoccupati e inattivi si contano quattro milioni di persone. Tre milioni sono precari, 2,7 milioni i part time involontari. Di fronte a questa situazione nei partiti del centro sinistra ci si è “sorpresi” per il fatto che CGIL e UIL hanno deciso uno sciopero generale contro le misure del governo che accentuano le diseguaglianze, non affrontano la precarietà nel lavoro e rinviano per giovani e anziani la riforma delle pensioni.
Sotto il profilo sanitario il perdurare delle incertezze legate al protrarsi dell’infezione da Covid ha richiamato, e non poteva che essere così, una maggiore attenzione dei cittadini nel confronti del Servizio sanitario che il 77% valuta adeguato. Ma, accanto al riconoscimento dell’eccezionale sforzo compiuto, stanno maturando nuove aspettative sulla sanità post-Covid. Il 94% della popolazione ritiene indispensabile avere sul territorio strutture sanitarie di prossimità, con medici di medicina generale, specialisti e infermieri cui potersi rivolgere in caso di bisogno e il 93,2% chiede un incremento stabile dei finanziamenti pubblici. Si tratta, nella sostanza, di una rivalutazione dei principi e degli indirizzi della riforma del Servizio Sanitario Nazionale del 1978. Un servizio pubblico universalistico che basava la sua efficacia sui dipartimenti di prevenzione. Impianto che il vento liberista, l’aziendalizzazione degli ospedali e lo spostamento di enorme quote di soldi pubblici verso il privato convenzionato ha stravolto. Aspettative cui toccherà adesso, al governo e alla politica, dare risposte convincenti, anche perché la pandemia ha accentuato il senso di vulnerabilità degli italiani. Il 40,3% si sente insicuro pensando alla propria salute e alla futura necessità di dover ricorrere a prestazioni sanitarie; il 33,9% non si sente protetto rispetto a un’eventuale condizione di non autosufficienza; il 27,4% teme la disoccupazione e le relative difficoltà reddituali ed è preoccupato dal tenore di vita che potrà permettersi nella vecchiaia.

Un risvolto positivo: la riscoperta della solidarietà
In un contesto insicuro ed incerto nei confronti del futuro qualche segnale positivo viene dalla riscoperta della solidarietà, caratteristica propria dei tempi difficili che stiamo attraversando. Un terzo degli italiani ha, infatti, partecipato a iniziative di solidarietà legate all’emergenza sanitaria, aderendo alle raccolte di fondi per associazioni non profit, per la Protezione civile o a favore degli ospedali. Quasi un terzo di coloro che si sono attivati ha, poi, svolto in prima persona attività gratuita in associazioni di volontariato impegnate nella lotta al Covid.

 

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