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Minacce di morte al figlio del carabiniere ucciso nel 1975 a Melazzo dalle BR

Alessandria (Andrea Guenna) – Chi scrive, di Br ne ha conosciuto qualcuno (se li prendi nel verso giusto non sono neanche tanto grami) e quando ha avuto l’onore di prestare il servizio militare come ufficiale di Cavalleria a Pinerolo, per un pelo non gli ha sparato addosso nell’estate del 1977, quando le Br – infiltrate in massa tra i contestatori spaccatutto appoggiati dai trinariciuti compiaciuti – avevano messo a soqquadro Torino. Quella sera, l’allarme di partire con M113 e M47 era rientrato all’ultimo momento coi carri già in moto coi fari accesi nel piazzale del Nizza Cavalleria con squadroni composti da gente tosta e pronta a tutto.
Tornando al giorno d’oggi, allo stesso modo con cui non mi meraviglio più se quattro tizi come i Maneskin hanno il successo che hanno, mi rendo conto che ci sia spazio anche per i P38 Gang che quando fanno concerti inneggiano alle BR.
Scrivo questo perché ieri il nostro concittadino Bruno D’Alfonso ha ricevuto una richiesta di messaggio sul suo profilo Instagram dal profilo privato di un evidente pseudonimo, Paco de Paperis, per cui su un clic sul link e sullo smartphone è apparsa la foto in bianco e nero del padre vittima dei terroristi in divisa da carabiniere e sopra, in caratteri rossi, una grande X con la scritta “Sei il prossimo”. Bruno D’Alfonso di 57 anni è  figlio dell’Appuntato dei Carabinieri Giovanni D’Alfonso (nella foto a destra), morto eroicamente a 45 anni nell’adempimento del proprio dovere il 5 giugno del 1975 ad Arzello di Melazzo (Alessandria), a seguito di un conflitto a fuoco con le brigate rosse. Nella cascina “Spiotta”, luogo del delitto, rimasero feriti altri due carabinieri, il Tenente Umberto Rocca e il Maresciallo Rosario Cattafi. Grazie al loro sacrificio fu liberato l’industriale Vittorio Vallarino Gancia che era stato rapito il giorno precedente a Canelli (Asti). L’operazione si concluse con l’uccisione della brigatista Margherita Cagol (nella foto a sinistra), moglie del capo storico delle B.R. Renato Curcio.
Quella minaccia su Instagram ci sembra la solita spacconata dei soliti sinistri fancazzisti, ma ciò non toglie che sia anche un’inequivocabile minaccia di morte. La domanda è: perché quei quattro personaggi, o chi per loro, hanno agito così? Al di là dell’esposizione mediatica a costo zero tanto cara a chi si esibisce, il fatto si ricollegherebbe a una denuncia presentata alla questura di Pescara proprio da Bruno D’Alfonso contro i P38 Gang per un concerto nel quale inneggiavano alla rivoluzione comunista armata: “Non ho dubbi – spiega Bruno D’Alfonso all’AGI – la minaccia è legata all’esposto che ho presentato una settimana fa contro l’esibizione in un locale di Pescara della P38 Gang, band musicale che secondo me inneggia chiaramente, attraverso i testi e le immagini postate sui social, alla violenza e alla lotta contro lo Stato. Dopo quell’esposto, la notizia dell’esibizione è finita in tutte le tv e su tutti i giornali e questo evidentemente a qualcuno non è piaciuto”.
A far scoprire a Bruno il gruppo rock era stato il figlio musicista, cui è capitato di suonare nello stesso pub del capoluogo abruzzese che il 25 aprile ha ospitato i P38 Gang.
“Ne ha parlato prima col proprietario, poi con me – dice D’Alfonso – e abbiamo visto che il gruppo ha quasi 6.000 follower su Instagram, che postano immagini di magliette con su scritto Curcio, disegni della R4 Rossa su cui venne fatto trovare il cadavere di Moro e slogan inequivocabili quali: colpirne uno per colpirne cento”.
Non è finita perché dopo il primo esposto presentato da D’Alfonso lo scorso 30 aprile, il giorno dopo ne è seguito un altro perché i P38 Gang si sono esibiti a Reggio Emilia in un circolo Arci cantando le stesse canzoni inneggianti alle BR.
“Naturalmente spero che gli autori della minaccia vengano identificati e perseguiti – ha aggiunto D’Alfonso nell’intervista ad Agi – ma credo anche che non debba essere permesso a nessuno, nemmeno in nome della libertà di espressione artistica, inneggiare al terrorismo e offendere la memoria di quanti di quel terrorismo sono stati vittime e dei loro familiari. La provocazione è una cosa, l’apologia di reato un’altra: la P38 Gang non è un fenomeno nuovo, si sono messi assieme almeno due anni fa e fanno più o meno regolarmente concerti: al di là dell’oltraggio per chi ha pagato con la vita, il rischio è che qualche pazzo gli dia retta e che decida di passare dalle parole ai fatti impugnando un’arma”.

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