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E IO PSICHIATRA DICO CHE LA PSICOSI È GIÀ TERRORISMO

Per un italiano o un’italiana in età giovane o adulta, la possibilità di morire divorati da uno squalo è sicuramente meno di un milionesimo di quella di sbriciolarsi in un incidente stradale o in un pericolosissimo accidente domestico (prima causa di morte per le giovani donne). Ciò nonostante gli squali fanno emotivamente più paura delle utilitarie o delle scale che si usano per appendere i bastoni delle tende o dei boiler a gas. È un meccanismo psicologico che valutando il rischio valorizza di più gli aspetti irrazionali e simbolici dell’evento piuttosto che i freddi numeri della statistica. Questa sfasatura viene efficacemente utilizzata in tutti i tipi di terrorismo. L’etimologia stessa della parola ci dice molto delle motivazioni e degli esiti di questa mostruosa manifestazione del comportamento politico-sociale. Purtroppo diffusa, soprattutto da quando la società di massa e la diffusione dei suoi penetranti mezzi d’informazione, ha fornito un formidabile megafono ad ogni azione violenta, a prescindere dalle sue motivazioni e dai suoi esiti.
Già negli oscuri teoremi delle Brigate rosse nostrane c’era il manifesto programmatico: «colpirne uno per educarne cento o mille». Effettivamente il meccanismo psicodinamico, quasi scontato, dell’identificazione nella vittima, stende come un contagio la paura insieme all’orrore. Il terrorista quindi sa che insieme al risultato specifico del suo gesto vi è anche e soprattutto quello comunicativo e suggestivo. Oserei dire, anzi, che gli effetti psicologici di massa del terrorismo sono tanto più efficaci, quanto più una società si percepisce come quieta e pacificata. Per questo il terrorismo organizzato come quello fondamentalista islamico, sa di affondarsi come una lama calda nel burro di una società disassuefatta a percepirsi come corale e organizzata intorno a forti valori condivisi e comunitari.
Se calcoliamo quante ore di vita umana per produrre o da godersi, sono e saranno soprattutto sacrificate in interminabili code di aeroporti e stazioni, capiamo già quanto la ferita inferta sia aperta e dolorosa, insieme a quel senso di diffusa insicurezza che sicuramente nuoce insieme al vivere civile, alle economie e alla qualità della vita. La reazione veramente efficace deve ispirarsi a ciò che Demostene ateniese diceva ai suoi concittadini, criticando le loro strategie nella guerra contro Filippo: «fate la guerra come un selvaggio fa a pugni. Ricevete un colpo sul viso e portate le mani al viso. Uno al ventre e le portate al ventre». Prevenire insieme terrore e terrorismo vuol dire non, ovviamente, minimizzare o censurare le notizie. Bensì trarre una lezione storica e operativa dagli eventi del proprio tempo. Non c’è bisogno di Huntington per certificare che è sicuramente in corso un non facile confronto di civiltà.
La psicosi si combatte quindi, non soltanto a valle, tendendo ad un impossibile rischio zero, che non c’è neppure percorrendo una circonvallazione urbana o nuotando in uno stabilimento balneare, bensì diffondendo un’attiva cultura della vigilanza civica e dell’autoprotezione. È una mobilitazione dell’Anima oltreché del comportamento. Ha dato esiti non soltanto in mancati atti terroristici, grazie all’intervento di buoni o forse normali cittadini, ma anche in una diffusa attenzione a ciò che può minacciare quella pace che il nostro vecchio continente ha pagato con trecento anni di stragi e guerre di religione. Subirne una, stupefatti e inebetiti dall’ipnosi del politically correct e del pancia-pacifismo, è un po’ come l’atteggiamento di Don Ferrante nei Promessi Sposi di fronte alla peste. Il morbo non è acqua sennò bagnerebbe, non è fuoco sennò brucerebbe, non è terra sennò peserebbe: ergo non esiste. Come ben si sa Don Ferrante e sua moglie Prassede morirono nella peste di Milano che era andata ben al di là di qualche caso sporadico portato da truppe d’invasione. I morbi si combattono non con la paura ma con l’isolamento del contagio, che passa anche attraverso la pronta identificazione de untori e portatori sani. Ma questo, come ben si sa, è qualcosa che non si può fare solo negli aeroporti, quando ormai è troppo tardi. Le spolette si disinnescano non quando l’ordigno è già confezionato, ma dove vengono pensate, progettate, costruite e diffuse. E più nei circuiti mentali e motivazionali di chi le porta addosso e di chi nutre, istruisce e sostiene il kamikaze, piuttosto che nei fili di rame fatti brillare fortunosamente e tardivamente da un bravo artificiere.

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