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L’agente Conte sta sfasciando i Servizi Segreti Italiani per costituire un’Agenzia alla James Bond (Fondazione)

Milano (Paolo Colonnello per La Stampa) – È uno dei grandi classici della politica italiana: il risiko sui Servizi Segreti, gestione e futuro. E quando si parla d’Intelligence da noi è subito un agitarsi scomposto di brame e trame nell’idea, spesso illusoria, che una delle istituzioni più delicate dello Stato possa davvero essere utilizzata contro questo o quell’avversario. Di certo molte cose sono cambiate: i vecchi Servizi, pieni di “barbe finte” reclutate nei ranghi delle forze dell’ordine e dell’esercito e dunque per loro natura portati più alle lotte intestine che a un effettivo ruolo di vigilanza e sicurezza collettiva, sono sempre più marginali. Oggi per diventare uno 007, come in qualunque moderna democrazia, si passa dalle università e dalle professioni manageriali, si può perfino compilare un modulo in Internet e trovare un’interfaccia trasparente nei rapporti con il pubblico. Ma quando la posta in gioco è il potere, ecco che gli orizzonti si fanno subito opachi.
La partita attualmente si gioca su tre fronti. Il primo riguarda appunto il controllo della politica che si agita per evitare “scherzetti”, vedi Matteo Renzi che, come ha scritto nel suo ultimo libro “Un’altra strada”, ha accusato alcuni ex esponenti dei servizi, di aver manovrato contro di lui nello scandalo Consip. Particolarmente sensibile al tema, Renzi lamenta che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non abbia affidato la gestione dei Servizi a una “Autorità delegata”, come avevano fatto altri suoi predecessori a maggior garanzia di trasparenza, ma si sia tenuto il controllo per sé. Prima della riforma del 2007, legge 124, il sistema dei servizi segreti civili e militari era affidato a due ministeri, Interno e Difesa. Dopo si è stabilito invece che i Servizi – coordinati dal Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (Dis), istituito sempre nel 2007 – debbano rispondere al presidente del Consiglio o a un’Autorità delegata. Il premier può dunque controllare i Servizi, ma nella prassi, il più delle volte, affida il compito a una persona di fiducia. Anche perchè è vero che talvolta gli 007 possono avere licenza non tanto di uccidere quanto di commettere determinati reati attraverso le cosiddette “garanzie funzionali” che servono, ad esempio, per compiere effrazioni, per entrare in abitazioni private, per sottrarre documenti o persino per intercettare al di fuori dell’autorizzazione giudiziaria. Ci vuole però quella del presidente del Consiglio che è l’unico, ad esempio, a poter mettere i sigilli del “segreto di stato”. Come si vede, si tratta di funzioni delicatissime e che prevedono un lavoro a tempo pieno. E in questo senso la delega a un’autorità “di fiducia” può diventare garanzia di maggiore trasparenza e professionalità.
La prima “Autorità delegata” venne assunta da Gianni Letta (2008-2011), poi da Gianni De Gennaro (2012-aprile 2013) e quindi da Marco Minniti (maggio 2013-dicembre 2016, per due mandati). A fare eccezione fu Paolo Gentiloni, che rinunciò ad assegnare la delega sapendo che si sarebbe andati presto a elezioni. Dopo Gentiloni però, questa figura di fatto è scomparsa: Conte, pur non avendo esigenze particolari, ha preferito tenere tutto per sé, finendo per essere accusato di una gestione poco trasparente. «L’intelligence appartiene a tutti, non è la struttura privata di qualcuno», attacca Matteo Renzi.
Il secondo fronte della partita riguarda invece il controllo interno degli stessi Servizi, ovvero Aise (esteri) e Aisi (interni), nonché il Dis, che dovrebbe appunto coordinare, attraverso una serie di strumenti tecnico giuridici e logistici le due agenzie di intelligence. Ma che spesso è vissuto invece come una struttura antagonista. La famosa legge 124 del 2007, all’articolo 2, comma 2, infatti attribuisce esclusivamente all’ Aise, diretta dal generale di Corpo d’Armata Giovanni Caravelli, e all’Aisi, diretta dal generale dei Carabinieri Mario Parente, il ruolo di agenzia di intelligence. E non anche al Dis, governato dal prefetto Gennaro Vecchione, che non dovrebbe avere ingerenze nelle attività dei Servizi che coordina. Più semplice da scrivere che da fare in concreto. Quando si parla di “coordinamento” infatti risulta difficile impedire che le varie strutture non si pestino i piedi dato che ogni capo è geloso del suo orto. «Quindi – come nota un personaggio di rango (in questo settore i nomi sono ovviamente vietati) – diventa spesso difficile conciliare determinate funzioni». La legge è sicuramente un faro dirimente, ma poi ci sono le interpretazioni discrezionali ed è lì che iniziano i guai.
I due poli della contesa s’incrociano infine con un terzo fronte, in realtà il più delicato e complesso per il nostro futuro, ma che per ora rimane più che altro un’ipotesi: la cosiddetta “Fondazione” che dovrebbe occuparsi di sviluppare la nostra cybersecurity, in vista delle sfide globali combattute ormai più sul web che sui campi di battaglia.
Fortissimamente voluta da Giuseppe Conte, osteggiata dal Pd e in misura meno decisa anche da Movimento 5S, la Fondazione dovrebbe essere un ente di diritto privato dotato però di poderosi strumenti finanziari pubblici (si parla di due miliardi e 200 milioni di euro) per implementare un settore nel quale il nostro Paese è ancora fortemente arretrato. Dotazioni finanziarie e obiettivi che, come si intuisce, scombussolerebbero non poco l’assetto delle intelligence nostrane.
Di cosa si tratta? Nessuno sa spiegarlo con precisione sebbene la solita legge 124, all’articolo 3 attribuisca già le funzioni di cyber sicurezza alle agenzie esistenti. Entrato e uscito dalla legge di bilancio prima e dal decreto del recovery fund dopo, il progetto per ora stenta a decollare, ma con quel tipo di prospettiva economica e di super competenze, sono in tanti ad agitarsi.

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