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Un anno nel tunnel

di Luca Ubaldeschi (direttore responsabile de Il Secolo XIX) 

Buongiorno e buon sabato,
è un sabato particolare, va detto, perché segna il primo anno delle nostre vite sotto la minaccia del coronavirus Covid-19.
Risale al 30 gennaio del 2020 la scelta dell’Organizzazione mondiale della Sanità di dichiarare il virus un rischio per la salute pubblica del pianeta.
Quel giorno siamo entrati nel tunnel della pandemia e un anno dopo ancora lo percorriamo in equilibrio tra paure e speranze.
Fa molto effetto riflettere su quanto le esistenze di tutti siano cambiate in questi 12 mesi. Nel linguaggio come nelle abitudini sono diventati protagonisti gesti e parole che prima stavano ai margini: contagio, pandemia, immunologo, mascherine, detergente, vaccino, variante, lockdown, zona gialla-arancione-rossa, dpcm, Cts, immunità di gregge, autocertificazione, tampone, quarantena, distanziamento, asintomatico, focolaio.
Ognuno di noi riuscirebbe facilmente ad arricchire questo elenco che fotografa un’amara verità: ancora non sappiamo quando recupereremo non dico una situazione di normalità, ma almeno una più ampia libertà e sicurezza di movimento. Quando cioè tornerà il momento in cui sarà la nostra volontà a decidere che cosa fare senza dover prima consultare le Faq del governo.
È stato un anno di profondi sbalzi nei nostri sentimenti: all’inizio l’angoscia nel non riuscire a contrastare la diffusione del contagio e nel vedere il drammatico aumento del numero delle vittime. Quindi la speranza, che sotto la bandiera di una battaglia globale contro il virus, ha assunto nel nostro quotidiano varie forme, collettive e individuali. Appartengono alla prima categoria gli sforzi per tamponare la caduta dell’economia e riuscire a riaprire le scuole. Sono del secondo tipo il voler fare una vacanza, lo stare insieme ai nostri cari durante le Feste, l’andare al ristorante o a teatro.
Tutti questi desideri, ahimé, non hanno avuto – e spesso ancora non hanno – vita facile. E se quest’anno era cominciato con l’entusiasmo per l’arrivo del vaccino, ci siamo presto resi conto che né Pfizer né Moderna o le altre case farmaceutiche assomigliavano ad Harry Potter e potevano d’incanto mettere fine a questo incubo.
Ci vorrà ancora tempo, lo sappiamo. Ci vorrà ancora pazienza da parte di tutti noi, ancora rispetto delle regole e attenzione ai comportamenti. Cose che – va detto – gli italiani hanno finora fatto con encomiabile dedizione, al netto di tutto sommato trascurabili eccezioni.
E proprio mentre guardiamo avanti, sapendo che il Paese dovrà fare un grande lavoro di ricostruzione, non posso fare a meno di pensare anche a qualche cosa di più personale. A esempio al fatto che, come ormai avviene da mesi e mesi, anche questa mattina al Secolo XIX faremo la riunione di redazione del mattino non più seduti intorno a un tavolo, ma guardandoci attraverso lo schermo dei nostri computer. Una soluzione adottata per ridurre le ore di contatto diretto in redazione. Un piccolo sacrificio, si dirà, anche se il lavoro di un giornale vive del confronto continuo fra i colleghi e in questo senso la condivisione degli spazi facilita il dialogo e le decisioni.
Ma ogni mattina, quando mi siedo davanti alla telecamera della riunione digitale, penso sempre al valore che hanno i rapporti umani diretti e di quanto – lavoro a parte – pesi il non poter liberamente incontrare un amico o passare il tempo con le persone che fanno parte della nostra vita senza il filtro di una “chirurgica” o di una “Fp2”.
E non vedo l’ora che la fine del tunnel cominciato un anno fa ci restituisca anche la magia di un abbraccio, privilegio che abbiamo perduto. Non so come la pensiate, ma sono convinto che anche quello sarà un vaccino utile per il mondo post-pandemia.

Un’anteprima degli articoli sull’epidemia pubblicati oggi sul Secolo XIX:

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