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I PARTIGIANI ROSSI COMBATTERONO PER LA PATRIA O PER STALIN?

Il 25 aprile chi va in piazza a cantare Bella Ciao (canzone che i partigiani non conoscevano perché era delle contadine emiliane cui Enzo Biagi nel dopoguerra ha fatto il testo) è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell’Italia. Un’immagine suggestiva della Resistenza, ma falsa. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile. La guerra contro i nazifascisti era solo il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell’Urss. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e come si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Dal libro “Bella Ciao” di Giampaolo Pansa (Rizzoli, ppgg 432, 19.90 euro) pubblichiamo il capitolo 6: “Terrorismo e ostaggi”. 

di Giampaolo Pansa – I primi a sparare e a uccidere furono i comunisti di Reggio Emilia. Diedero voce alle rivoltelle quando Longo e Secchia non avevano ancora messo in campo la struttura incaricata di scatenare il terrorismo nelle città e nei piccoli centri.
Quindici giorni dopo l’armistizio, la sera di giovedì 23 settembre 1943, poco dopo le nove, un ciclista solitario si recò nel paese di San Martino in Rio, sul confine tra le province di Reggio e di Modena. Aveva l’aspetto del contadino o del bracciante che ritorna a casa dopo una giornata di lavoro sui campi. Raggiunta la frazione di Gazzata, arrivò davanti alla villetta abitata da Guido Tirelli. Era un borghese di 43 anni che un ventennio prima aveva fatto parte delle prime squadre di Mussolini. Il ciclista era sicuro che in quel momento il Tirelli se ne stesse tranquillo in casa. Infatti era seduto a tavola e stava cenando con la famiglia. Lo chiamò dalla strada e lui, senza immaginare quanto stava per accadergli, aprì la porta. Come si affacciò, lo sconosciuto lo uccise con due colpi di rivoltella all’addome. Poi se ne andò pedalando tranquillo. Dopo aver lasciato accanto all’uscio un messaggio scritto a matita su un foglio di taccuino. Diceva: «Per ordine di Badoglio così finiscono le spie dei tedeschi».
Lì per lì qualcuno s’illuse di essere di fronte a un delitto qualsiasi, originato da questioni private. Ma quanto accadde in seguito cancellò tutti i dubbi. E confermò che anche nella campagna reggiana aveva mosso il primo passo un terrorismo di tipo nuovo. Aveva un’origine politica molto chiara: il comunismo di guerra, anzi di guerra civile.
Nel primo autunno del 1943 molti italiani non se ne resero conto, ma il Pci dimostrò subito di essere il partito dominante di quella che ancora non veniva chiamata la Resistenza. E lo provò nell’unico modo in quel momento possibile: l’assassinio degli avversari, i fascisti rimasti fedeli a Mussolini che avevano scelto di schierarsi con la nuova Repubblica sociale. 
Talvolta gli obiettivi da eliminare erano militari tedeschi, però assalirli non era affatto semplice. I reparti della Wehrmacht consideravano l’Italia un paese occupato anche se guidato da un governo amico della Germania nazista. Sapevano di trovarsi in un territorio pericoloso sin dall’8 settembre. E stavano molto attenti alle insidie che li attendevano. Assai più facile era colpire militari e civili italiani. Loro erano bersagli indifesi che potevano essere raggiunti in qualsiasi momento e nelle circostanze più impreviste. Con un rischio ridotto per chi gli sparava nella schiena.
A distanza di tanti decenni colpisce sempre la strategia messa in atto dai militanti del Pci. In molti luoghi dell’Italia del Nord e del Centro, senza strutture apposite, comandi riconosciuti, progetti elaborati, basi predisposte.
All’inizio tutto avvenne per iniziativa di singoli militanti, a volte sconosciuti anche ai dirigenti comunisti periferici. Fu così che si mise in moto un’offensiva fondata su uno schema semplice e terribile. Lo schema può essere riassunto nel modo seguente. Un attentato, una rappresaglia nemica. Un nuovo attentato, una nuova rappresaglia più dura. Un terzo attentato, una terza rappresaglia ancora più aspra. E così via, con una catena senza fine che aveva un solo risultato: allargare l’incendio della guerra civile e spingere alla lotta pure chi ne voleva restare lontano. 
Scriverà Giorgio Bocca: «Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Cerca la punizione per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio». 
Ecco qual era la strategia dei Gruppi di azione patriottica, i Gap. Fondati verso la fine del 1943 per iniziativa del Comando generale della Brigate Garibaldi, ossia di Longo e di Secchia. Uno degli spagnoli, Francesco Scotti, poi raccontò: «Qualche compagno sosteneva che non era giusto scatenare il terrore individuale, perché questo era contrario ai principi marxisti leninisti. Anche in Francia avevo ascoltato critiche di questo genere».
Aderire alla strategia dei Gap, anche soltanto sul terreno del consenso politico, era difficile per molti iscritti al Pci clandestino. Gente semplice e coraggiosa che rischiava l’arresto perché aveva in tasca una tessera o partecipava a una raccolta di denaro per i primi nuclei ribelli. Ma trovare dei compagni disposti a sparare alla schiena di un avversario, e a sangue freddo, risultava un’impresa davvero ardua. 
Lo riconobbe un dirigente comunista emiliano, responsabile dei Gap modenesi. Era Osvaldo Poppi, un personaggio che più avanti conosceremo meglio. 
Sentiamo che cosa raccontò a Liano Fanti, autore di un buon libro sui fratelli Cervi, Una storia di campagna, pubblicato da Camunia nel 1999: «Quando procedetti all’organizzazione dei primi Gap, incontrai grandi difficoltà a far passare i vecchi compagni sul terreno della lotta armata. Non trovavano lo stato d’animo giusto per sparare a un altro uomo. Ho dovuto cambiare per ben tre volte il comandante dei nostri Gap che non riuscivano a far scendere i propri uomini sul terreno dell’azione».
Poppi chiese consiglio a un altro dirigente comunista, Vittorio Ghini. Era un compagno sui quarant’anni, già condannato dal Tribunale speciale, poi emigrato in Svizzera. Nel 1936 era andato a combattere in Spagna, nella Brigata Garibaldi Gastone Sozzi, poi era stato internato al Vernet e di qui era passato a Ventotene. Dopo aver lavorato per il partito in Emilia, divenne un ispettore delle Brigate Garibaldi in Lombardia. Il 14 giugno 1944, durante una missione in Piemonte, fu catturato dai fascisti e fucilato a Novara.
Interpellato da Poppi, lo spagnolo Ghini gli spiegò come doveva muoversi: «Tu non devi ricorrere al vecchio compagno, ormai stanco e anchilosato. Tu devi rivolgerti ai giovani. Anche se sono giovani ex fascisti, devi avere fiducia in loro». 
Poppi seguì il consiglio e anche a Modena i Gap entrarono in azione.
Il vertice delle Garibaldi non perdeva tempo a strologare su queste esitazioni. Voleva vedere subito dei morti nelle strade. Secchia incitava ad agire «contro le cose e le persone» dei fascisti. Le azioni non venivano quasi mai rivendicate. E questo accentuava la paura seminata dalle molte uccisioni.
Pochi si rendevano conto che i Gap erano piccoli nuclei armati, composti soltanto da militanti comunisti, clandestini nella clandestinità, capaci di vivere nell’isolamento più totale. Una solitudine in grado di mettere a dura prova la resistenza nervosa anche del più freddo terrorista.
In realtà i gappisti veri e propri, quelli professionali e in servizio permanente, erano una frazione davvero minuscola rispetto ai tanti comunisti che iniziarono a sparare quasi subito contro i fascisti. Gli omicidi di dirigenti del nuovo Partito fascista repubblicano, di solito segretari federali, vennero preparati e compiuti da terroristi dei Gap. Ma gli altri delitti, ben più numerosi, furono il risultato di iniziative decise da singoli militanti, decine e decine di volontari, senza nessun rapporto con il vertice delle Garibaldi. Erano pronti a sparare e a uccidere, sulla base di una tacita parola d’ordine diffusa da nessuno. Ecco qualche esempio di queste azioni, di solito destinate a non entrare nella storia della guerra civile.
Il 5 novembre 1943, a Imola, venne ucciso il seniore della Milizia Fernando Barani. Il 6 novembre, a Medicina, sempre in provincia di Bologna, furono accoppati quattro fascisti. Il 7 novembre, a San Godenzo (Firenze) altri quattro fascisti caddero sotto le rivoltellate di sconosciuti. In seguito Giorgio Pisanò scrisse che questo attentato era stato compiuto da un gruppo guidato dal meccanico Alessandro Sinigaglia, poi capo dei Gap fiorentini. Anche lui uno spagnolo reduce da Ventotene, perse la vita nel febbraio 1944 in una sparatoria.
Nel Reggiano, dopo la fine del Tirelli, si cercò di accoppare il commissario della nuova federazione fascista, l’avvocato Giuseppe Scolari. 
Era l’imbrunire del 13 novembre e l’attentato fallì. Andò a segno il terzo colpo, messo in atto il 17 dicembre. L’obiettivo era Giovanni Fagiani, cinquantenne, seniore della Milizia e già comandante della 79ª Legione. Abitava nel comune di Cavriago e stava ritornando a casa in bicicletta. Era in compagnia della figlia Vera, 19 anni, che pedalava accanto a lui. In località Prati Vecchi, il seniore venne affrontato da due ciclisti, in apparenza contadini avvolti nel tabarro per difendersi dall’umidità invernale. Gli spararono e lo uccisero. Mentre Vera si gettava sul padre, tirarono anche su di lei e la colpirono al volto. La ragazza sopravvisse, ma rimase cieca.
A Genova il gruppo di Buranello, ormai divenuto il Gap della capitale ligure, il 27 novembre 1943 cercò di intervenire in appoggio agli operai meccanici e ai tranvieri scesi in sciopero.
L’agitazione era stata indetta dal Pci per adeguare il salario al carovita e ottenere l’aumento della quantità di alcuni generi alimentari tesserati. Ma l’aiuto si limitò a un paio di attentati contro i tralicci dell’alta tensione.
Più pesante fu l’intervento in occasione del nuovo sciopero deciso tra il 16 e il 20 dicembre. Due fascisti vennero uccisi, forse dai Gap o da altri. Per reazione, le autorità repubblicane fucilarono due operai già in carcere perché trovati in possesso di armi mentre tentavano di sabotare dei tram. La rappresaglia, resa pubblica il 20 dicembre, fece terminare subito l’agitazione. E provocò anche le perplessità di molti scioperanti nei confronti delle azioni gappiste.
Si cominciò a dire che la scelta di sparare contro singoli fascisti non valeva il rischio di una rappresaglia. In tanti temevano la reazione dei tedeschi, con l’uccisione di altri detenuti. 
Identificato come uno dei responsabili degli attentati ai tralicci, verso la fine di dicembre Buranello fu costretto a raggiungere la banda del Tobbio, dove stava già Fillak. Ma non ci restò per molto. Il 13 gennaio 1944 un terzo sciopero, iniziato dall’Ansaldo Fossati, si estese alle fabbriche del Ponente. E il partito ordinò a Buranello di ritornare in città dal Tobbio con l’incarico di appoggiare gli scioperanti, mettendo a segno qualche azione clamorosa. L’obiettivo era già stato scelto e questa volta erano i tedeschi che alloggiavano all’Hotel Bristol, in via XX Settembre. 
La stessa sera del 13 gennaio, Buranello, Fillak e lo spagnolo Scano spararono contro due ufficiali della Wehrmacht sorpresi per strada accanto all’albergo. Uno morì nella notte, all’ospedale di Quarto. L’altro si salvò, ma rimase menomato. Nella notte le SS prelevarono dalle carceri di Marassi otto detenuti politici, subito processati e fucilati al forte di San Martino, sulle alture della città.
Anche in Italia cominciava a essere applicata la regola già in vigore dall’agosto 1941 nella Francia occupata dai tedeschi. La norma diceva che tutti i detenuti politici dovevano essere considerati degli ostaggi, da sopprimere dopo ogni attentato. Lo spiega con efficacia il grande scrittore tedesco Ernst Jünger che era stato un capitano della Wehrmacht. Bisogna leggere in proposito Sulla questione degli ostaggi. Parigi, 1941-1942, pubblicato da Guanda nel 2012.
La stessa regola spietata portò alla strage del Passo del Turchino, il 19 maggio 1944. Quattro giorni prima, i Gap avevano fatto esplodere una bomba in un cinema di Genova, l’Odeon, riservato ai tedeschi. Cinque militari morirono e quindici rimasero feriti. Il comando delle SS di Genova prelevò dal carcere di Marassi quarantadue detenuti per attività antifasciste e diciassette partigiani catturati nel rastrellamento della Benedicta. I cinquantanove ostaggi vennero fucilati al Turchino, a gruppi di sei per volta.
Tornando all’esecuzione del 13 gennaio a Genova, la rappresaglia per l’attentato ai due ufficiali tedeschi ebbe un seguito. La sera del 25 gennaio la questura di Genova condusse una retata di militanti antifascisti già schedati. Gli arrestati, insieme ad altri detenuti politici, per un totale di quarantadue persone, il giorno dopo vennero deportati in Germania, forse nel lager di Dachau. Pochi di loro tornarono a Genova alla fine della guerra. 
Buranello tentò di reagire alla fucilazione degli otto detenuti antifascisti. Tra loro c’era anche un suo amico: Dino Bellucci, un professore di 33 anni, insegnante al Convitto nazionale Colombo, che si occupava della stampa clandestina comunista. Gli altri sette erano un tipografo, uno straccivendolo, un tranviere, un giornalaio, un operaio saldatore, un barista e un impiegato.
La sera del 15 gennaio, aiutato da Scano, Buranello scagliò delle bombe a mano contro la Casa del fascio di Sampierdarena. Però non riuscì a fare di più. E non gli restò che riprendere la strada della montagna, sempre in direzione del Tobbio. Ma il destino lo richiamava in città. 
Il 26 febbraio il vertice comunista regionale, in previsione del grande sciopero indetto per il 1° marzo nelle fabbriche di Genova, Torino e Milano, chiese al commissario politico dei Gap l’intervento di qualche uomo armato per appoggiare l’agitazione.
I Gap erano uno dei bracci armati del Pci. E dunque avevano anche loro un commissario. Nel caso di Genova era Luciano Penello, «Fino», 45 anni, padovano, uno scalpellino che aveva combattuto in Spagna nella Brigata Garibaldi. Dopo la fine della guerra civile, era stato internato in Francia e di lì era finito al confino di Ventotene. Era un pezzo d’uomo, molto dinamico, portato all’attività militare.
Penello spedì a Genova dal Tobbio sei uomini: Buranello, Fillak e altri quattro. Ma lo sciopero fallì subito. Penello ordinò ai sei compagni di ritornare in montagna. L’unico a rifiutarsi fu Giacomo Buranello. Voleva restare in città e tentare qualche colpo clamoroso per infondere coraggio agli operai. Invece la sfortuna, oppure una scarsa attenzione alle regole cospirative che in altre città i Gap si erano dati, decise la sua fine.
La mattina del 2 marzo 1944, mentre stava entrando nel bar Delucchi in via Brigata Liguria insieme a una compagna, Buranello venne riconosciuto da tre agenti della squadra politica della questura, che lo fermarono e gli chiesero di mostrare i documenti. Lui reagì sparando con la rivoltella che portava sempre con sé. Uccise due dei poliziotti, poi fuggì dal bar. La sua corsa finì subito perché incappò in un’automobile della Guardia nazionale repubblicana con quattro militi a bordo che lo bloccarono senza difficoltà. Condotto in questura, Buranello venne torturato in modo barbaro, anche con la corrente elettrica nei testicoli. Ma non disse nulla sulla struttura dei Gap, sui compagni, sui recapiti. Era un giovane dalla volontà ferrea. E un comandante molto esigente, con se stesso e con gli altri. Lo conferma Mario Carrassi, che dopo la guerra, ritornato dal lager tedesco di Ebensee, divenne un docente universitario di Fisica. 
Nell’autunno del 1943, all’età di vent’anni, aveva chiesto a Buranello di entrare nel Pci. In un libro di memorie raccontò il colloquio con lui e le domande che gli vennero rivolte. Buranello gli chiese: «Se il partito ti domandasse di sacrificare la vita in un’azione in cui la morte è certa, saresti disposto a farlo?». Carrassi narra di aver risposto: «Non so, ma penso di sì. Credo però che vorrei conoscere i motivi dell’azione». Buranello lo incalzò con un’altra domanda: «Se tu venissi catturato, saresti di certo sottoposto alla tortura. Sei sicuro di resistere e di non rivelare nomi di compagni, fatti, circostanze?». Carrassi replicò: «Come faccio a saperlo? Non sono mai stato torturato. In questo momento penso che saprei resistere».
Una volta catturato, Giacomo mostrò una resistenza quasi disumana. Un medico, chiamato a visitarlo dopo gli interrogatori, dichiarò che gli avevano devastato il volto e tutto il corpo. Visto che il prigioniero non parlava, si decise di processarlo la stessa sera del 2 marzo. Nell’ufficio del questore Arturo Bigon venne riunito un Tribunale straordinario d’emergenza.
Buranello fu condannato a morte e fucilato alle sei del mattino del 3 marzo, al forte di San Giuliano. Esiste tuttavia un’altra versione della sua fine, raccolta da qualche narratore di sinistra. Giacomo non venne neppure portato dinanzi al plotone perché si uccise gettandosi da una finestra della questura, in un momento di pausa delle torture.
Anche Walter Fillak era destinato a morire. Scampato al disastroso rastrellamento della Benedicta dell’aprile 1944, si trasferì in Piemonte e continuò a combattere. Divenne il comandante della 7ª Divisione Garibaldi, dislocata nella bassa valle d’Aosta e nel Canavesano. Catturato dai tedeschi alla fine del gennaio 1945, fu impiccato il 5 febbraio lungo la strada di Alpette, nei pressi di Cuorgnè.
Nel frattempo la guerra dei Gap si era molto estesa. E tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 colpì almeno quattro bersagli eccellenti. Fascisti di prima fila che non si aspettavano di avere la guerra in casa.

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