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I ristoranti riaprono ma non trovano manodopera, la pandemia ha portato cuochi e camerieri verso altri lidi

di Alessandra Meldolesi – Il piagnisteo è ormai generalizzato, e questa volta non si tratta di lockdown o zone rosse: i ristoranti praticamente chiusi da 14 mesi non riescono più a reperire la manodopera necessaria per la ripartenza. Ed è un fenomeno non solo italiano: se ne è occupato anche The Guardian, dove Tim Lewis, snocciolando una lunga lista di esempi, ha firmato un pezzo allarmistico. “La grande carenza di chef britannici: perché mangiare fuori è in pericolo”, recita il titolo. E a seguire: “Stiamo vivendo l’età dell’oro del fine dining, ma in questo momento non ci sono abbastanza chef o camerieri addestrati e la Brexit non aiuterà”.
L’ospitalità nel paese conta per 6 milioni di posti di lavoro, che ne fanno il quarto ramo di business più corposo; ma si calcola che un quinto dei ristoranti sia già in fallimento. Di questo passo nel 2029 il numero dei posti vacanti potrebbe addirittura raggiungere il milione. Il problema, a causa delle norme di ingaggio post Brexit, è particolarmente grave a Londra, dove il 25% degli chef e il 75% dei camerieri provenivano da paesi dell’Europa continentale e hanno infine deciso di rientrare alla base, costringendo molti ristoratori a ricorrere ad apposite agenzie.
Il pronostico punta su una cucina più semplice e basata sul prodotto, dove la ricerca sarà sempre meno battuta. “Nessuno avrà il tempo, nessuno avrà i soldi”, è la sensazione. Di fatto, specialmente nel fine dining “di mezzo”, dove arrancano le stelline, molti chef si stanno arrangiando in cucina da soli o con i propri familiari. E la situazione non cambia molto a New York, dove gran parte della manodopera specializzata si è trasferita, aprendo una voragine negli organici di chi non l’ha intelligentemente fidelizzata con delivery, asporto e altre attività transitorie.
È un fatto che le abitudini di tutti sono cambiate. L’incertezza non regna meno sovrana in Italia, se è vero che le inaugurazioni si sono dimezzate rispetto al periodo pre pandemia, secondo i dati della FIPE, e i posti di lavoro già andati in fumo sono il doppio di quelli guadagnati quando pascolavano le vacche grasse, fra il 2013 e il 2019. Parliamo rispettivamente di 514mila e 245mila occupati. Ma i dati monstre, elencati su Linkiesta da Anna Prandoni, proseguono: per 6 ristoratori su 10 il calo di fatturato ha superato il 50%, ma secondo gli addetti ai lavori il 2021 si chiuderà anch’esso con il segno negativo, nonostante un ottimismo di fondo sulla ripartenza via via che la situazione sanitaria si rasserena.
Sotto accusa sono i sussidi a pioggia, per primo il reddito di cittadinanza, che in una situazione ancora indecifrabile suggerirebbero la massima prudenza a fronte di sacrifici certi e spesso mal retribuiti. Nessuno fino a poco tempo fa avrebbe potuto prevedere tempi e modalità di riaperture e richiusure, annunciate sempre con scarso anticipo, rendendo assai ardua una programmazione conforme alle normative e ai contratti collettivi.
Ma c’è dell’altro. Il tradizionale bacino di manodopera più o meno occasionale del settore era costituito da giovani e meno giovani che hanno compiuto nel frattempo altre scelte di vita, rientrando dalle metropoli nei paesi di origini o, soprattutto nel caso dei più specializzati, cercando fortuna all’estero, laddove le restrizioni non hanno imbrigliato in modo così soffocante il settore. Potrebbe entrarci, secondo Prandoni, anche una minore predisposizione al sacrificio “per la causa” da parte delle nuove generazioni.
Di fatto se chi cerca lamenta un calo dei compensi, motivato con la congiuntura straordinaria, chi offre fa i suoi calcoli al centesimo, su quanto gli converrebbe aspettare la fine della disoccupazione o quanto perderebbe da un’eventuale nuova chiusura. Finendo spesso per proporsi in nero al fine di sommare redditi diversi.
Ancora una volta, peraltro, il Covid avrebbe accelerato processi in corso, come la riflessione su orari di lavoro e qualità della vita in brigata (ma può essere davvero troppo presto per compiere questo genere di riflessioni, data la precarietà al cui filo siamo tutti appesi). La nouvelle cuisine, sostiene qualcuno, sarebbe nata dalle norme post ’68 che regolamentavano diversamente il lavoro, imponendo di fatto lavorazioni più agili ed espresse. Qualcosa di simile potrebbe replicarsi adesso, con esiti imprevedibili. Eppure sembra ieri, quando i ragazzi sognavano la divisa da chef di fronte a Masterchef. La bolla mediatica è scoppiata? Di sicuro molte cose cambieranno, ma i coperti apparecchiati continuano a riempirsi rapidamente a pranzo e a cena là fuori. E qualcosa alla fine vorrà pur dire.

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