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La normativa indica Regione e Comune titolari dell’Asilo Monserrato

Alessandria – Scoppia la polemica sullo sgombero dell’ex asilo Monserrato occupato dall’associazione Casa delle Donne. La struttura è pubblica e di competenza della Regione Piemonte in quanto Ipab (Istituto pubblico di assistenza e beneficenza) e come succede anche con altre strutture di proprietà dello Stato o della Regione, è gestito dal Comune in cui si trova, esattamente come la cittadella di Alessandria. Quella Casa è dentro un Ipab, sgomberato dal commissario straordinario Barbara Rizzo, che fa capo all’assessore regionale piemontese Chiara Caucino (Lega). Sulla vicenda prende le distanze l’assessora alessandrina alle Pari opportunità Cinzia Lumiera (Lega) che dice: “Non è di mia competenza”. Ma non è proprio così in quanto, come vedremo, il Comune di Alessandria ha la gestione dell’asilo Monserrato occupato abusivamente dalla Casa delle Donne. Per questo esiste la sentenza della Corte Costituzionale del 6 luglio 2020, n. 135, che affronta la vexata quaestio a proposito dell’autonomia decisionale, organizzativa e finanziaria dei Comuni e, allo stesso tempo, l’esigenza d’un intervento riformatore da parte del legislatore regionale in una materia come  quella delle Ipab ritenuta importante per aggiornare il loro ruolo e le loro funzioni.

Il parere della Corte Costituzionale
La Suprema Corte innanzi tutto stabilisce che i Comuni non sono estranei alla gestione delle Ipab, storicamente “disegnate” per rispondere ai bisogni sociali e assistenziali delle comunità in cui esse sono radicate, per cui i Comuni possono giocare un ruolo fondamentale nella definizione della rete territoriale dei servizi che, nel rispetto dei vincoli pubblicistici, permetta alla diverse organizzazioni impegnate, siano esse di natura pubblica ovvero non profit, di partecipare alla garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni sociali. A questo proposito è bene ricordare che il riordino del sistema delle “Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”, è disciplinato dal d. lgs. 4 maggio 2001, n. 207, emanato a seguito della delega di cui all’articolo 10 della legge 8 novembre 2000, n. 328. Il d. lgs. n. 207/01 ha disposto che le Ipab “evolvessero” in associazioni o fondazioni di diritto privato, disciplinate dalle disposizioni del Codice civile (c.d. “depubblicizzazione”) oppure, in alternativa, in Aziende pubbliche di servizi alla persona. Il decreto legislativo in parola ha poi lasciato ampia libertà alle Regioni affinché definissero gli aspetti giuridici, organizzativi e gestionali ritenuti maggiormente aderenti alle diverse realtà territoriali. Tra questi rientrano anche le disposizioni in ordine all’estinzione dei patrimoni delle Ipab e alla conseguente collocazione del personale in esse impiegato. Ed è qui che la Regione deve intervenire e non lo fa.

Il parere della Regione Siciliana
A questo proposito esiste un precedente importante, quello della Regione Siciliana che che ha approvato la legge 9 del maggio 1986, n. 22, recante “Riordino dei servizi e delle attività socio-assistenziali in Sicilia”, il cui art. 34, comma 2 “obbliga i Comuni ad assorbire il patrimonio e il personale delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza soppresse autoritativamente dall’amministrazione regionale, e ciò anche in deroga alle norme sul contenimento della spesa pubblica (comprese quelle che introducono divieti di assunzioni o limitazioni alle assunzioni di personale) e sull’equilibrio dei bilanci pubblici (nonostante tali norme siano espressione del principio fondamentale del coordinamento della finanza pubblica)”. Secondo questa legge, la Casa delle Donne dovrebbe sgomberare, anche se la materia non è del tutto chiara.

La sentenza del Tar
Infatti un Comune siciliano faceva ricorso al Tar che, con sentenza del 4 settembre 2018, n. 2122, accoglieva il ricorso, annullando la risoluzione regionale per difetto di motivazione. Per contro, il Tar Sicilia, sezione staccata di Catania, con sentenza del 27 marzo 2018, n. 648, rigettava il ricorso proposto da un altro Comune, ritenendo il provvedimento di estinzione basato su un’adeguata istruttoria e sufficientemente motivato, le limitazioni di assunzione del personale non operanti in caso di successione ope legis, e il disposto trasferimento di personale riferito esclusivamente a quello assunto con pubblico concorso. Con l’ordinanza n. 556 del 15 ottobre 2018, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, sezione giurisdizionale, sospendeva il giudizio sull’appello presentato contro la decisione del Tar di accogliere l’istanza dell’ente locale contro il trasferimento automatico di tutti i rapporti attivi e passivi, ivi compreso il personale, dalle Ipab dichiarate estinte con provvedimento regionale ai Comuni ricorrenti. Con l’ordinanza in parola il Consiglio ha sottoposto la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge regionale siciliana, laddove prevede, appunto, l’automatico assorbimento del personale delle Ipab estinte in capo all’ente locale.
Il Comune aveva evidenziato che ammettere l’automatico trasferimento dei rapporti attivi e passivi dalle Ipab estinte agli enti locali significa contraddire il principio secondo cui “ad ogni trasferimento di funzioni deve corrispondere un adeguato trasferimento (o un’attribuzione) di risorse economico-finanziarie per farvi fronte, principio che vale, all’evidenza, anche per il caso di trasferimento di complessi patrimoniali che determinino oneri (quali spese di manutenzione, restauro etc.) forieri di perdite economiche, nonché – ovviamente – per il caso di trasferimento di personale”.

Solo i Comuni possono subentrare nella proprietà delle Ipab inattive
A difesa della norma regionale è stato sostenuto che non potendo l’Ipab proseguire nella “mission” a suo tempo affidatale dai fondatori, sia per questioni organizzative che per questioni economico-finanziarie, l’estinzione dovrebbe considerarsi un atto dovuto e ineludibile. Ne discenderebbe che i Comuni, per effetto delle disposizioni normative vigenti, detengono la prerogativa di organizzare e gestire i servizi socio-assistenziali, con la conseguenza che solo essi potrebbero subentrare nella proprietà del patrimonio e nelle funzioni delle Ipab estinte.
La Corte costituzionale, con la sentenza 6 luglio 2020, n. 135, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, della legge della Regione Siciliana 9 maggio 1986, n. 22 (Riordino dei servizi e delle attività socio-assistenziali in Sicilia), nella parte in cui prevede “che i beni patrimoniali sono devoluti al comune, che assorbe anche il personale dipendente, facendone salvi i diritti acquisiti in rapporto al maturato economico”.
In sintesi, il Giudice delle Leggi ha statuito quanto segue:

  1. la scelta della Regione di traferire i rapporti attivi e passivi delle IPAB estinte in capo ai comuni non è di per sé irragionevole;
  2. ciò che invece integra la violazione dei parametri costituzionali (artt. 97, 117 e 119) è invece la rigidità della norma, che impone ai Comuni siciliani l’accollo delle ingenti posizioni debitorie delle Ipab, accollo che, in assenza di un’adeguata provvista finanziaria, diventa insostenibile nei casi (come quelli di specie) dei Comuni più piccoli, per i quali l’effetto quasi fisiologico della successione è quello dell’attivazione delle procedure di dissesto;
  3. il subentro di un ente nella gestione di un altro ente soppresso (o sostituito) deve avvenire in modo tale che l’ente subentrante sia salvaguardato nella sua posizione finanziaria;
  4. l’eventuale subentro necessita di una disciplina che inter alia regoli gli aspetti finanziari dei relativi rapporti attivi e passivi e, dunque, anche il finanziamento della spesa necessaria per l’estinzione delle passività pregresse.

La Corte Costituzionale chiede alle Regioni di intervenire
Richiamando anche la posizione più volte assunta dai giudici contabili (Tar), secondo i quali gli enti locali non possono farsi carico dei dissesti finanziari delle Ipab, atteso che ciò comporterebbe, tra l’altro, un’indebita compressione della loro autonomia finanziaria, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata. Interessante segnalare che dalla dichiarazione d’illegittimità costituzionale la Corte ha inteso far conseguire “l’obbligo per il legislatore regionale di provvedere alla complessiva risoluzione del problema delle Ipab in dissesto, individuando un ragionevole punto di equilibrio che contemperi tutti i valori costituzionali in gioco, primo fra tutti quello della tutela dei soggetti deboli”.
Così come nel 1988, ancora una volta, la Corte Costituzionale si colloca quale “pungolo” per il legislatore, nella fattispecie regionale affinché esso intervenga a disciplinare una materia che tanto impatto ha sia sulla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni sia sugli assetti istituzionali e organizzativi degli enti locali.
In questa prospettiva, la sentenza de qua può risultare utile anche per quelle Regioni – si pensi alla Regione Veneto – che ancora devono legiferare in materia di Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza ovvero che potrebbero ipotizzare interventi riformatori nel comparto delle ASP (Aziende pubbliche di servizi alla persona). In entrambi i casi, potrebbero essere rivisti i rapporti intercorrenti tra IPAB / ex IPAB e i comuni in cui esse operano, spostando il fuoco dai meccanismi di rappresentanza (rectius: nomina dei rappresentanti in seno ai consigli di amministrazione) alle forme di collaborazione istituzionale, finalizzate ad assicurare i livelli essenziali delle prestazioni sociali.
In questi anni, tra l’altro, si è assistito:

  1. all’approvazione di diverse disposizioni regionali in ordine all’accreditamento in ambito socio-sanitario posto in capo ai vari servizi a prescindere dalla natura giuridica dei soggetti erogatori;
  2. alla progressiva espansione di soggetti privati for profit nel comparto dei servizi alla persona;
  3. ad una certa confusione tra assetti istituzionali e funzione gestionale che in qualche territorio regionale si registra in capo alle ASP, alle quali talvolta vengono affidate responsabilità programmatorie;
  4. ad una progressiva esternalizzazione (e, in epoca più recente, processi di co-progettazione) dei servizi delle ex IPAB, con una netta preferenza per la cooperazione sociale;
  5. alla costituzione di veicoli societari strumentali sia sotto forma di società sia in forma non profit alle quali le ASP hanno assegnato la produzione e l’erogazione di servizi a loro favore;
  6. alla progressiva assimilazione delle realtà non profit (anche a seguito dell’approvazione del Codice del terzo settore) alle ASP per quanto attiene la disciplina in materia di trasparenza, anticorruzione, approvvigionamento di beni, servizi e forniture et similia.

Alla luce del contesto sopra delineato, si può ritenere che le ragioni che, forse in passato, potevano militare a favore di una via privilegiata alla “pubblicizzazione” sembrano tramontate, non soltanto per quanto sopra brevemente richiamato ma anche:

  1. per la spinta propulsiva del diritto europeo che non opera distinzione tra soggetti pubblici e privati, considerati tutti alla stregua di operatori economici;
  2. per la legittima partecipazione degli enti locali nel patrimonio delle fondazioni (attraverso la formula della fondazione di partecipazione).

In estrema sintesi la competenza è comunale
Di qui il ruolo decisivo che possono giocare gli enti locali: essi hanno disposizione gli strumenti di diritto pubblico per delineare percorsi di collaborazione orizzontale con le ex Ipab sia attraverso la sottoscrizione di appositi accordi di programma sia attraverso un rafforzamento dei Piani di Zona. A ciò si aggiungano anche gli istituti offerti dalla riforma del Terzo settore. Tra tutte si ricorda che gli enti locali e le ex Ipab trasformate in Asp possono attivare percorsi di co-progettazione con associazioni e fondazioni, realizzando così positive sinergie al fine di rispondere in modo più efficace ed adeguato alla sfida, soprattutto del progressivo invecchiamento della popolazione e della riduzione delle reti famigliari a sostegno degli anziani, contribuendo in questo modo a farsi carico delle persone più fragili della società.
E ciò coerentemente con i principi costituzionali di responsabilità pubblica, pluralismo sociale e ruolo delle organizzazioni della società civile nell’assicurare e garantire i livelli essenziali delle prestazioni socio-sanitarie. Responsabilità che – come è noto – è in capo allo Stato centrale, ma che necessariamente deve incontrare l’alleanza strategica delle Regioni e degli assetti territoriali dei servizi socio-sanitari.
In questo contesto, conseguentemente, si potrà affrontare anche il tema della collocazione / trasferimento del personale, elemento fondamentale nella definizione di percorsi improntati alla qualità e alla professionalità dei servizi erogati.
Quindi ha ben operato Palazzo Rosso, in assenza di accordi con l’associazione La Casa delle Donne, a tornare in possesso della struttura, in attesa che la Regione Piemonte, tramite l’assessore Chiara Caucino, assuma dei provvedimenti definitivi.

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