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Tutti con l’Ucraina, ma perché nessuno difende i curdi?

di Paolo Burgio – I curdi non hanno uno Stato, ma hanno una fortissima identità nazionale, che va oltre i confini tracciati dagli Stati, Turchia, Siria, Iraq, Iran entro i cui confini territoriali il popolo curdo si è trovato da secoli incluso. Un popolo unito da una lingua, da tradizioni, dall’appartenenza ad un ambiente dove ha da sempre vissuto, fiero delle proprie origini e deciso a difendere il proprio retaggio culturale.
Questa è l’idea che mi sono fatto dei curdi, dopo aver ascoltato le testimonianze di due donne, la rappresentante dell’Ufficio Informazioni curdo in Italia, Tanrikulu Ozlem e Nursel Aydogan, ex-deputata del parlamento turco, da anni rifugiata in esilio in Germania, durante un incontro organizzato nel marzo 2019 da alcune associazioni milanesi, tra cui il Laboratorio di Democrazia Partecipata di Lambrate, guidato da Sergio De La Pierre, di cui abbiamo riferito.
Un’idea che la lettura degli scritti di Abdullah Ocalan (nella foto) ha poi rafforzato ulteriormente. Ocalan è il leader curdo detenuto dal 1999 in completo isolamento nell’isola di Imrali, in condizioni che la Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2014 ha giudicato disumane, condannando la Turchia per il trattamento inflitto. Una sentenza totalmente ignorata dalla Turchia, a cui non ha fatto seguito alcuna presa di posizione da parte non tanto dei governi o dei partiti dell’Unione Europea, ma nemmeno della società civile.
Sono rimasto assolutamente colpito dalla scoperta di un autore, i cui scritti sono da noi del tutto ignorati, anche negli ambianti più progressisti, il quale, pur segregato in condizioni di totale isolamento e disagio, anche psicologico, ha saputo ripercorrere criticamente il proprio passato rivoluzionario e rivalutare la propria esperienza politica. Rifacendosi all’eredità storica dei popoli che hanno dato origine alla nostra civiltà, ha tracciato una visione di grande attualità, aprendo prospettive da prendere in considerazione per il superamento della profonda crisi politica odierna e il recupero delle basi democratiche delle nostre istituzioni.
Io invito alla lettura di “Oltre lo Stato, il Potere e la Violenza” che, scritto da Ocalan come memoria difensiva nel processo a cui era sottoposto, rappresenta una seria analisi storica, culturale e religiosa della società curda, una elaborazione di istanze politiche calate nella modernità dei nostri tempi, avanzando una serie di proposte per realizzare una società genuinamente democratica all’interno degli Stati e delle istituzioni.
“Oltre lo Stato, il Potere e la Violenza” è un libro di non agevole lettura, risente certo delle condizioni di segregazione in cui l’autore ha lavorato, con diverse ripetizioni e qualche incongruenza, non ha avuto riletture, né correzioni editoriali, tradotto dal curdo al tedesco e per noi dal tedesco all’italiano, ma è anche un libro affascinante per lo spiraglio che apre sulle possibilità di guardare con occhi nuovi al futuro, ribaltando i dogmi e le verità apparenti su cui si basa l’attuale sistema, di cui Ocalan denuncia lo stato di evidente “caos” e di cui viviamo tutte le contraddizioni.
Per la “nazione” curda costituisce un testo fondamentale, fonte di ispirazione per le popolazioni del Rojava nel dar vita ad un’esperienza di democrazia diretta unica e singolare nel mondo odierno e nel contesto degli Stati in cui è nata.
Uno dei punti centrali del pensiero di Ocalan riguarda l’assoluta parità tra uomo e donna; nell’evoluzione della società primordiale umana la donna ha costituito l’elemento intorno a cui si è formato il clan e ne ha determinato il comportamento sociale. La donna, per il fatto stesso di essere madre, ha capacità di relazione, di solidarietà, di cura dell’altro che l’uomo non ha; secondo Ocalan la società primitiva ha potuto evolvere grazie alla prevalenza dell’influenza dell’elemento femminile, guidato da un’intelligenza di natura essenzialmente “emotiva” e portatore di valori di condivisione e solidarietà.
Successivamente col prevalere dell’elemento maschile e il dominio imposto dall’uomo alla donna, si sono affermati altri “valori”, la forza, l’individualismo, la volontà di potenza, “valori” guidati da un’intelligenza più “analitica” che “emotiva”. Nascono così la proprietà privata, lo Stato e le Istituzioni religiose. Bisogna ritornare ad un equilibrio tra i valori di cui sono portatori i due sessi, nell’ambito sociale si devono riaffermare le prerogative femminili volte all’accoglimento, all’interesse alla persona, all’inclusività.
Questa impostazione ha trovato terreno fertile nella popolazione del Rojava. Ha creato un sistema in cui nelle amministrazioni locali siedono pariteticamente uomini e donne, dove vengono eletti un uomo e una donna a svolgere le funzioni di sindaco, dove le decisioni sono prese con la partecipazione diretta dei cittadini.
In Rojava ha trovato attuazione il modello di “autonomia democratica” preconizzato da Ocalan, un sistema dove morale e politica rappresentino la dimensione in cui la società può vivere in armonia. Per i curdi essere cittadini di una nazione democratica è un diritto e un dovere inalienabile, da difendere in casi estremi con la forza. Questo diritto, nella situazione specifica del Kurdistan, non ha comportato la richiesta della creazione di uno Stato Curdo, ma l’affermazione di una “nazione curda” entro i perimetri degli Stati nazionali in cui i curdi si sono ritrovati confinati. La libertà democratica viene raggiunta nelle istituzioni che amministrano le comunità e la “nazione è una comunità di persone che condividono una mentalità comune”, come Ocalan scrive.
L’esperienza del Rojava rappresenta quindi un caso concreto di autonomia democratica praticato senza intaccare il predominio territoriale degli Stati Nazionali entro cui è stato realizzato, senza sovvertire gli equilibri politici in gioco in quella parte del Medio Oriente, sempre che le ragioni altrui non vengano calpestate con l’uso della violenza.
Mi sono domandato dopo aver preso conoscenza di quanto avveniva nel Rojava e dopo aver letto Ocalan quanto avesse potuto durare questa esperienza e come alla lunga avrebbero reagito i governanti degli Stati che l’avevano consentita, una volta sconfitto, grazie al sacrificio del popolo del Rojava, il nemico comune rappresentato dall’ISIS.
Stiamo vedendo come il caos sia ritornato a insanguinare questo territorio, un caos che non deriva da chissà quali origini, ma da ben precisi mandanti, ben noti a tutti, che invece di essere messi al bando e considerati per quello che sono, cinici responsabili di crimini contro l’umanità, mantengono salde le redini dei rispettivi governi e si spartiscono il bottino.
La sconfitta della comunità democratica in Rojava è anche una sconfitta per la nostra democrazia; il sistema che produce il caos sembra più forte della ragione, dei sentimenti, del limite oltre il quale si diventa disumani.

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