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Piero Angela, un professore senza laurea

Torino 15 Dicembre 2014 (Eleonora Barbieri de Il Giornale) – “Guardi che io della mia vita privata non parlo”. A quasi 86 anni Piero Angela ha appena fatto le ore piccole. “Sono andato a dormire all’una e mezza, e alle cinque ero già sveglio. I giovani si stancano prima…”. C’è anche il fatto che lui lavora tutto il giorno: “Sto girando due puntate di due ore ciascuna: Tredici miliardi di anni fa, tutto quello che è successo dal Big Bang a oggi”.

Un viaggio nel tempo?
Sì. Immagini dieci telecamere nello spazio e nel tempo, che “riprendono” i momenti di svolta. Giriamo a Torino.

È tornato nella sua città?
Solo per caso. Ci sono nato e cresciuto, ma a 27 anni me ne sono andato.

Che cos’è l’educazione piemontese?
Un passo indietro. Prima di fare qualcosa, studiare, mai azzardare. La tradizione del vecchio Piemonte l’ho vista a casa, in mio padre: essere modesti, sobri, non esibire.

Un modo di vivere?
Può essere anche un difetto. A Torino c’è molto arrosto e poco fumo. I torinesi tendono a eccellere quando vanno fuori e si lanciano un po’ di più.

Ma è vero che andava male a scuola?
Sì. Non mi hanno mai bocciato, ma non mi interessava. Insegnavano male, in modo noioso, pedante. Credo che la mia vocazione a fare divulgazione sia nata proprio da quel disagio che provavo a lezione.

Pensa che sarebbe un buon maestro?
Credo di sì. Riuscirei a trasferire il piacere, la meraviglia, l’interesse per la scienza.

Però ha frequentato il Liceo classico.
Le famiglie borghesi mandavano i figli al classico, è rimasta questa idea che apra la mente. Ma in Francia, dove hanno studiato anche i miei figli, la sezione più prestigiosa è la “C”, quella di matematica. Chi va male studia lettere.

E dopo il liceo?
Quando sono nato, l’infermiera disse: “Questo è un ingegnere”. In famiglia c’erano già medici, avvocati, quindi mancava. Così mi iscrissi al Politecnico, ma ho lasciato.

Ha lasciato l’università?
Stavo preparando l’ottavo anno al conservatorio, studiavo pianoforte. In più ero un dilettante di jazz, mi facevo chiamare Peter Angela: ho suonato coi professionisti dell’epoca, Nunzio Rotondo, Gianni Basso, Franco Cerri.

Insomma non si è laureato? È pazzesco.
Forse è normale… La scuola ha tanti meriti, ma dipende molto dai professori che si hanno.

Poi però si è rifatto.
Ho ricevuto nove lauree honoris causa. Mi hanno fatto molto piacere. Ho scritto anche 36 libri.

Un prof senza laurea?
La gratificazione più grande per me è incontrare sempre tantissimi ragazzi che mi dicono: ho scelto questa facoltà perché ho visto i suoi programmi o letto i suoi libri. Se ho un merito, è quello di aver trasmesso questo piacere di scoprire la scienza e amarla.

Da ingegneria al jazz. Ma come è passato al giornalismo?
Un amico mi disse che la Rai cercava dei radiocronisti. Feci un corso di tre mesi e il freelance per un po’. Poi andai a Parigi per fare una sostituzione: alla fine sono rimasto lontano dall’Italia tredici anni, tra la Francia e Bruxelles.

E alla scienza come è arrivato?
Nel ’68 il direttore mi fece un provino per condurre un nuovo tg. Così sono tornato in Italia. Mi alternavo con Andrea Barbato. E lì ho iniziato a seguire il lancio dell’Apollo, tutte le missioni, con pezzi di cronaca e una serie di documentari dagli Stati Uniti.

Una svolta?
Quando sono tornato ho detto al direttore: “Cambio registro”. E subito ho preparato dieci puntate da un’ora sulle nuove conoscenze nei vari campi, soprattutto il cervello, la microbiologia, la genetica.

Faceva tutto da solo?
Sì, per dieci anni. Però ne facevo pochi, al massimo nove l’anno. Così pensai di creare una rubrica e un gruppo di collaboratori, per fare almeno venti puntate.

Ed è nato Quark.
La prima puntata ebbe nove milioni di spettatori. In tutti questi anni la formula è rimasta la stessa: la tecnica del tg insieme al giornalismo scientifico.

In oltre trent’anni il pubblico è cambiato?
È sempre fatto di persone curiose, intelligenti.

La chiave del successo?
Essere dalla parte degli scienziati per i contenuti e da quella del pubblico per il linguaggio. Chiarezza e serietà.

Da anni lavora con suo figlio Alberto. Com’è?
Il patrimonio migliore che i genitori possano lasciare ai figli è la conoscenza, l’istruzione. Lui ha sempre studiato, anche all’estero: Harvard, Columbia, Ucla, ha fatto il volontario in molti scavi in Africa. Una volta la tv svizzera gli ha fatto un’intervista ed è stato così bravo che gli hanno affidato una rubrica.

È un cuore di papà anche lei, allora…
Alberto è preparatissimo. Così nel ’94, quando mi chiesero di fare due ore di trasmissione e avevo bisogno di gente per i servizi, il vicedirettore di Rai1 mi disse: “Prendi tuo figlio”.

E lei?
“Mi spareranno addosso”. Però ha un successo straordinario.

E sua moglie che cosa dice quando vi vede entrambi in tv?
Non ha mai fatto una fotografia. Dice che ne bastano due…

E i suoi nipoti la guardano?
Direi di no.

Ma è vero che non è assunto alla Rai?
Sono andato via vent’anni fa e mi sono messo in proprio. Ogni anno rinnovano il programma, se funziona. Ma i nostri ascolti per ora vanno sempre bene.

E lei guarda la tv?
No. Non seguo il calcio, né lo sport. Zero canzoni, spettacoli niente. I quiz non mi interessano, gli sceneggiati neanche. Ogni tanto qualche film. Guardo solo quei polizieschi, tipo Csi: sono come la Settimana enigmistica…

E anche sua moglie guarda solo Csi?
Sì, anche lei. Poi ama molto la musica classica e i balletti, ma ne trasmettono pochi.

Dove va in vacanza Piero Angela?
Ho fatto molti viaggi in zone non da turisti, con la tenda, il sacco a pelo e la cassa cucina.

Con moglie e figli?
Sì, con tutta la famiglia. Il Niger in barca, la traversate del Ténéré con Alberto, dove poi lui è stato anche rapito, l’Amazzonia del Perù, il Ladach fra India e Cina, appena aperto, tre giorni di viaggio in camion. E poi l’Indonesia nelle isole di Nias, lo Yemen, la Birmania.

Non avrà portato sua moglie in luna di miele in tenda.
No. Ma non posso dirle dove, se no mia moglie si arrabbia.

Ma fa ancora viaggi del genere?
Adesso ho una certa età. E poi alcune zone sono molto accessibili al turismo, quando ho visitato il Ladach era ancora nel medioevo, oggi i monaci vendono i biglietti.

Dove avrebbe voluto andare ancora?
Volevo fare le valli dell’Afghanistan a cavallo. Ma poi il viaggio è saltato, un peccato.

Nel suo libro A cosa serve la politica? dice che la liberazione femminile è un sottoprodotto del petrolio. Che significa?
Sa che questa è la prima cosa interessante che mi chiede? Tutte quelle domande su di me… Comunque, nel 1875, quando è nato mio padre, nei registri di nozze il 60% degli sposi e l’80% delle spose firmava con una croce. Sa che fine avrebbe fatto, se fosse stata una donna del 1870?

Mi mancano dieci decimi. Credo sarei rimasta in un angolo…
E avrebbe fatto sei-sette figli, perso un dente a figlio e poi sarebbe morta di parto come mia nonna. Nel frattempo sarebbe stata chiusa in casa o nei campi a lavorare duramente, per guadagnare poco.

La situazione cambia col petrolio?
L’industria toglie la gente dai campi e fa guadagnare di più. E quando ci sono i soldi per mangiare, le persone possono andare a scuola. Però le macchine hanno bisogno di energia.

Quindi di petrolio.
Libri, edifici, scuole, riscaldamento, tutto è un oggetto industriale. La democrazia e la liberazione maschile e soprattutto femminile sono legate alla capacità tecnoenergetica di una società.

Col Cicap e le sue inchieste si è fatto molti nemici?
Più che nemici sono disinformati. Ho cominciato coi gruppi di parapsicologia, alcuni hanno letto un mio libro e si sono convertiti, sono diventati “pierangelisti”.

Che cosa pensa delle medicine alternative?
C’è una battuta della mamma di Michele Mirabella: “Mi curerò con una medicina alternativa quando mi ammalerò di una malattia alternativa”. Per i servizi sull’omeopatia ho ricevuto tre denunce e fatto cinque processi. Sempre assolti.

Che cosa vorrebbe fare ancora?
Un disco di pianoforte. Ma non lo farò mai. Sono troppo autocritico.

 

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