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L’oppressione fascista e la vera storia delle Foibe

di Marcello Flores – La questione irrisolta delle foibe nella coscienza civile degli italiani che riemerge ad ogni celebrazione della Giornata del Ricordo istituita nel 2004 ha potuto perpetuarsi anche perché sedimentata in una memoria collettiva del tutto parziale e spesso confusa dei fatti occorsi in quel “confine orientale” lontano dall’esperienza della stragrande maggioranza della popolazione della penisola. Su questo tronco di ignoranza e di oblio, cresciuta anche per l’assenza della questione nella formazione storica delle giovani generazioni, la Giornata del Ricordo ha avuto il merito di “obbligare” gli italiani a confrontarsi con questa pagina nera della storia nazionale, facendo però riemergere fratture memoriali e divisioni ideologiche che affondavano le loro in quei tragici eventi non rielaborati né dalla storiografia – se non negli ultimi vent’anni – né tanto meno dal discorso pubblico.
A quei fatti dobbiamo andare dunque se si vuole non solo per conoscerli meglio, ma soprattutto per determinare la formazione di quegli anticorpi collettivi che servono a guardare al passato al di fuori degli stereotipi e dei riflessi condizionati delle vecchie e nuove appartenenze politiche.
Per facilitare questo compito abbiamo chiesto a Marcello Flores, autore, insieme con Mimmo Franzinelli, di una monumentale storia della Resistenza uscita a novembre scorso per i tipi di Laterza, di autorizzarci a pubblicare alcune pagine dell’opera, capaci di fornirci una sintesi del fenomeno.

L’oppressione fascista in Slovenia, Istria e Venezia Giulia
L’ 8 settembre aveva aperto per moltissimi italiani il problema della patria di fronte al suo crollo e del tradimento dell’alleanza con la Germania nazista. Questo problema, da cui discese per molti soldati la scelta di sfuggire alla leva repubblicana, ingrossando le file della Resistenza, e per molti internati miliari di rifiutare di combattere sotto le insegne tedesche, si pone – anche se su un piano diverso – anche dove la Resistenza è iniziata precedentemente, nella zona della provincia di Lubiana, conquistata con la guerra, e in Istria e Venezia Giulia dove il fascismo ha oppresso per un ventennio con estrema spietatezza le minoranze slave. In entrambe le regioni, sia pure in modo differente, la lotta partigiana si manifesta già nel 1942.
Tra il maggio e il dicembre si risponde con il metodo del terrore, rivendicato dal generale Taddeo Orlando, comandante della 21a Divisione fanteria “Granatieri di Sardegna” (successivamente sottosegretario e ministro della Guerra nei governi Badoglio e comandante dell’arma dei Carabinieri dal ’44) In Venezia Giulia il clima di “guerra totale”, divenuto dopo l’8 settembre esteso e permanente, imperversava da almeno un anno, a opera dell’Ispettorato generale di pubblica sicurezza, gestito con pugno di ferro da Giuseppe Gueli (che sarà in seguito al 25 luglio il responsabile della prigionia di Mussolini sul Gran Sasso) contro l’attività antifascista in genere e i partigiani slavi in particolare. (Nella foto in alto a destra il sindaco postcomunista Giorgio Abonante, all’inaugurazione del villaggio di istriani, dalmati e fiumani ad Alessandria che si è celebrata in questi giorni in ricordo di Norma Cossetto – nella foto sotto – che i suoi compagni comunisti croati hanno violentato e ucciso nel 1945. Che s’ha da fa’ per campa’!).
Nello stesso periodo, la nuova provincia italiana di Lubiana è controllata da quasi 300.000 soldati; altrettanta violenza viene esercitata in Dalmazia, con eccidi e torture: a Podhum, che segna il culmine di una serie di crimini di guerra, in attuazione delle direttive del generale Roatta, vengono uccisi nel luglio 1942 tutti i maschi (circa 200) tra i 16 e i 55 anni, e il paese viene dato alle fiamme; nei campi di concentramento – tra i quali spicca quello dell’isola croata di Arbe, con 10.000 prigionieri in un anno e un tasso di mortalità del 15% – sono stipati oltre 30.000 deportati… Dopo il 25 luglio la Wehrmacht già assorbe nelle regioni balcaniche i reparti italiani, preparando il successo del piano Achse e il disarmo del regio esercito dopo l’8 settembre. L’occupazione dei grandi centri – Trieste, Monfalcone, Lubiana – è rapida e completa, con l’esclusione di Gorizia dove ha luogo tra l’11 e il 26 settembre uno dei primi e più importanti fatti d’arme legati all’armistizio, una battaglia che vede partigiani sloveni e italiani contrapposti alle forze armate germaniche.

La battaglia di Gorizia
Alla vigilia dell’armistizio esisteva già il “Distaccamento Garibaldi” con circa una trentina di uomini, comandato dall’operaio di Muggia Piero Mercandel e con commissario politico Mario Karis, condannato dal Tribunale speciale nel 1930, che all’inizio del 1943 aveva creato nel Collio una base di aiuto per gli antifascisti italiani ricercati e di informazioni per i partigiani sloveni. Si tratta del primo, ancora numericamente modesto, volontarismo partigiano della zona. È un pionierismo che stenta ancora ad incidere sull’opinione pubblica locale ma che ha un significato politico preciso. Con esso si apre una fase nuova per l’antifascismo italiano […].
La realtà partigiana slovena stimola la presa di coscienza della necessità di una lotta armata che ha i suoi precursori italiani sia nella Venezia Giulia che oltre confine. Dai Cantieri di Monfalcone centinaia di giovani vanno a ingrossare le file degli insorti, dando vita alla formazione della Brigata “Proletaria, comandata dal Ferdinando Marega e organizzata in tre battaglioni. La Brigata, insieme ad altri soldati sbandati del regio esercito nel tentativo di anticipare l’arrivo dei tedeschi occupa la stazione della città e l’aeroporto militare e si posiziona dove riesce a interrompere i collegamenti tedeschi tra Gorizia e Trieste. Mentre i partigiani, che hanno raggiunto la cifra considerevole di 5000, tentano di difendere Gorizia, il comandante del 24° corpo d’Armata di stanza a Udine raggiunge un accordo con i tedeschi permettendo loro di attraversare le zone controllate dai suoi uomini e riprendere cosi il controllo della città. La battaglia si trascina ancora per qualche giorno e poi termina il 26 settembre ’43.
La battaglia presto la stazione ferroviaria di Gorizia rappresenta, probabilmente il primo episodio di guerra civile tra italiani, alcuni dei quali, su versanti contrapposti, appartenenti fino a pochi giorni prima alla stessa divisione, ma anche un turning point della lotta antifascista nella regione.

Le foibe istriane del 1943
Mentre infuria la battaglia di Gorizia, in Istria il Comitato popolare di liberazione (CPL) proclama, il 13 settembre, l’annessione alla Croazia, confermata nelle settimane successive dal Consiglio antifascista di liberazione nazionale iugoslavo (AVNOJ).
In una parte del territorio istriano, già prima dell’8 settembre privo di controllo, con l’armistizio si vive un vuoto di potere che favorisce l’emergere del potere partigiano e di rivolte rurali contro i possidenti. In questo clima e in questa situazione, mentre l’esercito tedesco procede a riconquistare quella che è diventata la Zona d’operazioni del Litorale Adriatico (OZAK), hanno luogo violenze contro i civili che coinvolgono il movimento partigiano: le “foibe istriane” del settembre-ottobre 1943. Il presidente del CPL istriano, Joakim Rakovac, aveva assicurato i comunisti italiani che dopo l’insurrezione i fascisti sarebbero stati sottoposti a processo impedendo vendette e procedimenti sommari. L’insurrezione, accreditata poi come tale dalla storiografia ufficiale iugoslava, è in realtà un movimento spontaneo e poco coordinato che, in una prima fase, crea organismi provvisori di potere che solo in seguito – con il controllo militare e politico del Movimento popolare di liberazione iugoslavo e l’arrivo in Istria di quadri dirigenti del Partito comunista croato – troveranno una sia pur estremamente provvisoria sistemazione.
Sulla base della documentazione e dei contributi che storici croati, italiani e sloveni hanno prodotto nell’ultimo ventennio, si può sintetizzare il massacro delle foibe istriane in questi termini. Nella situazione di vuoto di potere si assiste parallelamente all’occupazione di cittadine e villaggi da parte dei partigiani iugoslavi, con rivolte popolari caratterizzate da violenze contadine contro i proprietari terrieri. L’anelito a lungo compresso alla libertà e il desiderio di vendetta per le sofferenze e i soprusi patiti da una popolazione che nell’entroterra è a maggioranza slava favoriscono l’intreccio tra spinte nazionalistiche e tendenze rivoluzionarie, tra il desiderio di cacciare gli invasori italiani e la volontà di eliminare la borghesia e far trionfare un progetto socialista.
La violenza si manifesta, inizialmente, contro gerarchi e funzionari civili e militari del governo fascista, ma anche contro possidenti e notabili che rappresentano, agli occhi degli insorti, gli elementi della minoranza nazionale italiana che hanno collaborato a opprimere la maggioranza croata e slovena della popolazione. A uomini del Partito fascista si affiancano soldati e ufficiali della Milizia, funzionari statali di vario grado, proprietari terrieri, farmacisti, insegnanti, commercianti.

Un escalation di violenza
Le vittime di queste prime foibe sono – per quanto sia difficile fare un computo preciso – tra 500 e 700. Ad agire, in molti casi, sono “giustizieri improvvisati”, tra i quali figurano anche italiani, che si presentano come “guardie della rivoluzione” e danno un carattere al tempo stesso politico e sociale alla propria aggressività: “scene di violenza si ripetevano un po’ dappertutto a opera delle forze popolari improvvisate che s’impossessarono tra il 9 e l’11 settembre dell’intera penisola, a parte Pola, Dignano (Vodnjan), le isole Broni, Capodistria e Isola”.
Il numero degli insorti si aggira attorno ai 12.000 uomini, guidati prevalentemente da quadri comunisti, anche se non sempre è così. Le direttive politiche di non procedere a esecuzioni sommarie sono spesso ignorate, anche per il carattere fluido dell’occupazione e la presenza di persone che, per ideologia politica o motivi personali, intendono procedere come “vendicatori” di un ventennio di angherie e persecuzioni… Le prime esecuzioni ordinate dal Tribunale di Pisino furono eseguite il 19 settembre alle cave di bauxite locali; dato però che uno dei condannati riuscì a fuggire, si decise che in futuro le fucilazioni sarebbero avvenute nelle vicinanze di “foibe” dove seppellirli.
La giustificazione, data sin da allora, di “fenomeni marginali, dovuti in maggioranza a singoli elementi locali irresponsabili” o al carattere spontaneo di una reazione popolare alla lunga oppressione fascista, o alla presenza di “elementi estremisti e facinorosi o anche psicopatici” è accettabile solo in minima parte, sebbene vi fossero eventi ascrivibili a simili cause. Al di là delle uccisioni maggiormente “spontanee”, quelle stabilite dal Tribunale rivoluzionario giudicarono e giustiziarono gli arrestati sulla base del loro essere “nemici del popolo”, una categoria abbastanza ampia in cui far confluire non solo fascisti e collaboratori del regime ma chiunque non si schierasse apertamente con l’esercito partigiano.
Una categoria, non va dimenticato, che aveva avuto soprattutto negli anni Trenta una sua grande rilevanza nella tradizione comunista sovietica, e che sarà ampiamente ripresa negli anni successivi alla fine della guerra…Tra le motivazioni della violenza, tanto nelle testimonianze quanto nella riflessione storica, permangono contrapposti, quasi si dovesse scegliere tra l’uno o l’altro, motivi di classe e di comportamento rivoluzionario, tipici della tradizione comunista dell’epoca che aveva alle spalle la vicina esperienza della guerra civile spagnola, e scelte di carattere nazionalistico ed etnico, nel tentativo di escludere, nella guerra di liberazione, la convivenza con chi aveva assunto complessivamente l’immagine e l’identità del nemico: “le azioni di polizia contro i “nemici del popolo” decise dal Comando di Pisino sono un’indicazione di percorso nella quale s’inseriscono le rabbie popolari, aprendo spazi di discrezionalità dove trovano posto le esecuzioni politiche mirate, ma anche gli odi personali e gli atti di criminalità comune” Non si può negare che la violenza, come accadde spesso e ovunque, “esercitava su molti combattenti una sua seduzione, anche se a posteriori venne giustificata come atto necessario, come risposta alla violenza altrui. L’esercizio della violenza diventava anche per numerosi combattenti una sorta di sfogo della pressione a lungo accumulata”.

La doppia liberazione di Trieste
La questione delle foibe riemerge nei mesi cruciali della liberalzioen dell’Italia e della fine del conflitto mondiale. L’avanzata alleata nell’Italia nord-orientale poneva con forza il problema del rapporto con l’esercito di liberazione iugoslavo e, indirettamente, con l’Urss. L’avvicinarsi della fine della guerra più in generale poneva nuovi problemi che ogni attore sul campo – dalle grandi potenze a quelle minori – cercava di sfruttare a proprio vantaggio. Il 12 aprile, tre giorni dopo l’avvio dell’offensiva definitiva, l’8a Armata britannica riceve l’ordine di occupare tutto il Nord-Est, sino a Fiume, e instaurarvi un governo militare alleato. Già da alcune settimane, però, le indicazioni ricevute dalla 4a Armata iugoslava erano state quelle di raggiungere l’Isonzo e liberare l’Istria e il litorale sloveno. Le unità garibaldine, ormai inserite stabilmente nel 9° Korpus sloveno, sono trasferite all’interno e allontanate sia da Trieste sia da Gorizia. Proprio il 12 aprile la Garibaldi “Natisone” è inviata al confine meridionale tra Slovenia e Croazia e il 6 maggio, dopo numerose azioni militari, entrerà a Lubiana.
Le forze partigiane iugoslave sono in vantaggio rispetto a quelle alleate e il 20 aprile giungono alla periferia di Fiume. L’ordine di Tito, il 28 aprile, è di accelerare l’ingresso a Trieste e la sua “liberazione”, per giocare sul fatto compiuto nel momento del confronto sull’individuazione dei confini che dovrà avere il nuovo Stato socialista iugoslavo. Nello stesso giorno Alexander riceve l’ordine di “restaurare l’autorità italiana” ma senza confliggere con le forze iugoslave, mentre ai partigiani friulani della “Osoppo” si chiede di facilitare e velocizzare l’avanzata alleata.
È in questo contesto – con gli scontri durissimi tra tedeschi e iugoslavi che si radicalizzeranno il 30 aprile a Opicina e Basovizza – che prende corpo la doppia insurrezione di Trieste, a opera del CLN cittadino e dei partigiani comunisti (italiani e sloveni) sottoposti al KMT (Komanda Mesta Trsta, Comando Città di Trieste) del 9° Korpus e inquadrati nei battaglioni binazionali di Unità operaia (Delavska enotnost). Gli incontri di metà aprile tra membri del CLN triestino e dell’OF sloveno si erano bruscamente arenati per la richiesta del PCI di sciogliere il CLN e farlo confluire nel CEAIS (Comitato esecutivo antifascista italiano sloveno) di prossima costituzione. Alla presenza di formazioni armate azioniste e democristiane (legate al CLN), e comuniste, si aggiungevano reparti armati autonomi, legati al podestà di Trieste Cesare Pagnini (che aveva costituito una Guardia Civica da lui dipendente) e al prefetto Bruno Coceani (che aveva creato un reparto di Guardia Repubblicana di Finanza ai suoi ordini) e ampiamente infiltrati da uomini del CVL che vi avevano aderito per condizionarle dall’interno. I tentativi di raggiungere un accordo formale con il CLN da parte di Pagnini e Coceani vengono respinti, mentre un ultimo incontro tra il CLN e il CEAIS non produce risultati concreti…
Già nel mattino del 28 aprile hanno inizio i primi incidenti, e intanto manca ancora un coordinamento tra forze che non rispondono tutte allo stesso comando. Nel pomeriggio hanno inizi le azioni dei combattenti comunisti agli ordini del KMT; così il 29 aprile sono presenti tre forze parallele a combattere ancora in modo spontaneo e poco ordinato contro le postazioni tedesche: “gli uomini che avrebbero dovuto fare capo al progetto di Coceani (bracciale tricolore), gli uomini delle brigate del Partito d’Azione e della Democrazia Cristiana (bracciale amaranto), gli uomini dell’Unità Operaia che rispondevano al “Komanda Mesta Trsta – Comando Città di Trieste” .

L’insurrezione
La città viene divisa in cinque zone di operazione, si stabilisce dove debbano agire dieci brigate e numerosi gruppi speciali, si distribuiscono le armi sottratte alle caserme della Milizia o prese ai tedeschi che vengono fatti prigionieri. Nella notte un gruppo guidato da Spaccini entra nel carcere del Coroneo e libera il presidente del CLN, don Edoardo Marzari, il democristiano Dario Groppi e il comunista Attilio Rizzotti-Vlach. L’insurrezione ha ormai tutti gli uomini ai propri posti e alle 5,20 del 30 aprile la sirena della protezione antiaerea con due fischi ne segnala l’inizio. È del 30 aprile il telegramma che Togliatti invia alla classe operaia triestina invitandola ad affiancare l’esercito iugoslavo, e che verrà reso noto qualche giorno dopo a dimostrazione della comunità d’intenti tra comunisti italiani e sloveni. La battaglia, comunque, ha un unico nemico, i tedeschi ancora asserragliati in alcuni presidi e dotati di artiglieria e autoblindo. Il palazzo delle Poste e la stazione sono teatro di scontri, il municipio è occupato dalla Guardia Civica di Pagnini e dagli insorti del CLN.
“Alla sera i presìdi tedeschi sono limitati ai punti franchi del Porto, Comando di marina alla Lanterna, Stazione centrale e il Frontleistelle di via Ruggero Manna, Palazzo di Giustizia, castello di San Giusto, villa Geiringer: tutti circondati in attesa della prossima capitolazione; tutti in attesa dell’arrivo chi degli anglo-americani, chi degli jugoslavi”. I morti complessivi tra gli insorti sono una settantina, quelli tedeschi quasi il triplo, oltre a seicento prigionieri. Il CLN assume formalmente i poteri e issa bandiere tricolori sugli edifici pubblici. Il 1° maggio le truppe della 4a Armata iugoslava comandate dal generale Bogdan Pecoti? entrano in città e si fermano stremate tra via Carducci e via Battisti. Il comandante di piazza, membri del CLN e comandanti militari vanno loro incontro mentre in prefettura il CLN, nella persona del presidente don Marzari, firma i primi e unici decreti del governo provvisorio, la nomina del prefetto e del questore. Le operazioni militari continuarono a fianco degli jugoslavi fino alle ore 10.00, quando gli elementi dell’Unità Operaia iniziarono il disarmo dei patrioti.
La convinzione, o l’illusione, di poter riprendere i combattimenti contro gli ultimi tedeschi rimasti – circa 3500 sono ancora in città il 1° maggio – e le iniziative per impedire la distruzione del porto e il brillamento delle mine già armate a fine marzo (compiute dalle brigate “Pisoni” e “Foschiatti” del Partito d’Azione) riassumono la confusione di quel giorno, accentuata dalle notizie via radio che già dal 30 aprile sostenevano la liberazione della città a opera degli inglesi (Radio Londra) o degli iugoslavi (Radio Belgrado). Mentre le forze iugoslave occupano la città, nel pomeriggio del 2 maggio vi entrano anche le truppe neozelandesi dell’8a Armata, spingendo i tedeschi asserragliati nel castello di San Giusto a procrastinare la resa per potersi consegnare agli Alleati. Alle 17,30 le campane segnalano l’evacuazione del castello e la resa tedesca.
Come sappiamo, l’insurrezione di Trieste non avviene in modo omogeneo e coordinato come nelle altre città italiane, ma è il risultato di forze diverse che si muovono spesso autonomamente avendo però lo stesso obiettivo di cacciare i tedeschi dalla città. La liberazione, come atto conclusivo, è opera dei soldati iugoslavi che sono entrati in città il 1° maggio, ma il merito va certamente attribuito a tutte le componenti che dal 29 aprile al 2 maggio combatterono per le strade di Trieste, compresi i soldati neozelandesi giunti per ultimi.

L’occupazione jugoslava e le foibe giuliane
I quaranta giorni di occupazione della città, prima che l’accordo firmato a Belgrado il 9 giugno tra il governo iugoslavo e gli Alleati permetta il ritiro il giorno 12 dell’esercito di Tito oltre la Linea Morgan, sono caratterizzati da un regime autoritario e dalla presenza diffusa e capillare dell’OZNA (Odeljenje za Zaštitu Naroda), il Dipartimento per la Sicurezza del popolo, la polizia segreta del nuovo potere ispirata al modello sovietico.
È in questo periodo che hanno luogo le violenze che hanno preso il nome di “foibe giuliane”, ossia le violenze e le stragi che hanno luogo nel maggio 1945 nella Venezia Giulia. Si tratta di un tema complesso che ha ricevuto, negli ultimi vent’anni, una crescente attenzione e ha prodotto una quantità rilevante di studi storici documentati e attendibili.
Non andrebbe comunque dimenticato, per comprendere l’intero panorama di una realtà articolata, il sentimento dominante degli sloveni triestini e del circondario, ma anche dei croati dell’Istria, nel momento in cui le truppe dell’esercito iugoslavo di liberazione avevano fatto il loro ingresso nella città il 1° maggio. Per loro si trattava effettivamente di una “liberazione”, dopo i decenni di dominazione fascista e da ultimo nazista, della possibilità di affermare i propri ideali “nazionali” non solo senza timore ma con la garanzia di ritrovarli in primo piano nella gerarchia di valori del nuovo potere. Era un sentimento che, in aggiunta a quello di una prossima palingenesi rivoluzionaria auspicata dai comunisti, i quali vedevano nel futuro governo iugoslavo la sconfitta non solo del fascismo ma anche del capitalismo, spingeva alcuni a intrecciare la gioia e la speranza con la volontà di vendetta e con una sospirata resa dei conti.
Molti decenni dopo la Commissione storica mista italo-slovena avrebbe ricordato: “L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani”, anche se è stato analizzato come molti “testimoni non rinnegano la loro militanza nel Partito comunista e il loro credo internazionalista, eppure la motivazione ideologica del loro antifascismo si ritrae di fronte a quella nazionale”.

Una violenza statale
La violenza che si manifestò in quei giorni, comunque, andrebbe inquadrata non solo e non tanto in una logica di scontri etnico-nazionali (che sembra spesso una trasposizione della tragedia e dei conflitti che hanno coinvolto nei primi anni Novanta la ex Iugoslavia) quanto in quella, più generale, che ebbe luogo in ogni parte d’Europa alla fine del secondo conflitto mondiale. La differenza di fondo, rispetto alle violenze che caratterizzano i giorni della liberazione in altre parti del paese, è costituita dal fatto di essere stata progettata ed eseguita da un potere statale, e non da incontrollati gruppi desiderosi di una vendetta più o meno giustificata.
Ma le motivazioni politiche e ideologiche, e perfino per molti aspetti quelle psicologiche e personali, sembrano evidenziare molto più le somiglianze delle differenze. Quanto fosse complessa la realtà triestina, lo dimostra un brano di Pier Antonio Quarantotti Gambini, scrittore e bibliotecario (nella Biblioteca civica “Attilio Hortis” ospita le riunioni clandestine del CLN), fuggito a Venezia durante l’occupazione iugoslava ed “epurato” come fascista, che pubblicò nel 1951 una rivisitazione delle note di diario prese in quei giorni.
Questa mossa, per cui gli uomini di Tito appaiono più in veste d’esercito jugoslavo che non in quella, attesa dal nostro proletariato, di armata comunista, va suscitando nei vari ambienti effetti assai diversi. Disgusta da un lato gran parte degli estremisti triestini, e irriterà e preoccuperà più che mai gran parte della popolazione che, pur senz’essere comunista, nel marxismo credeva di poter vedere una possibilità d’intesa con le sinistre italiane, e quindi di libertà nazionale, mentre da uno stringente nazionalismo dittatoriale jugoslavo non può temere che schiavitù; e rassicurerà dall’altro lato certa classe capitalistica, pronta a cedere allo slavismo purché la Jugoslavia si dimostri non comunista; e andrà in fine, malgrado tutto, rassicurando non meno anche gli inglesi che in una Jugoslavia filobritannica (e solo apparentemente legata a Mosca) hanno sempre confidato, accarezzandola e sostenendola per costituirsi un appoggio nei Balcani.

È su questo complesso sfondo nel quale le aspirazioni alla liberazione e quelle di una radicale trasformazione sociale si intrecciano con i progetti egemonici del nuovo stato comunista che Tito sta costruendo in Jugoslavia che vanno lette anche le drammatiche vicende dell’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia che avrebbe costituito tra il ’47 e il 56 un’altra pagina dimenticata e rimossa del lungo dopoguerra sul confine orientale.

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