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I paraplegici corrono, i minorenni invece di gareggiare si esibiscono, e qualche profugo si salva per lo sport (nazionale di calcio francese): ecco il tramonto di una civiltà

di Giusto Buroni – Il termine, oggi universale, “sport” si dice derivi dal Latino “de-portare” (secondo Internet: “fare attività, di svago e ricreazione, all’esterno della porta di casa”): affermatosi in Italia come “diporto”, in Spagna “deporte” e in Francia “desport”, approda abbreviato in “sport” in Inghilterra (1532). Il gusto anglosassone per le scazzottature la competizione e lo sforzo prolungato (“endurance”) ha poi reso l’attività sportiva più simile a quella che si praticava in Grecia al tempo delle prime Olimpiadi (776 a.C.) (pancrazio, corse, salti e lanci) piuttosto che alla “Pacifica Ricreazione Fuori Porta” dei Romani. Insomma: la parola deriva dal Latino, ma l’attività ad essa collegata da ormai cinque secoli deriva dal Greco e si sarebbe potuta chiamare “Agone” o “Agonismo”, termini che sopravvivono nella lingua italiana un po’ “ricercata”. Come per ogni altra attività umana, creativa o no, non mancarono filosofi e artisti che notarono gli aspetti estetici (perfino religiosi) della manifestazione sportiva e così fin dai tempi delle prime Olimpiadi divenne apprezzata consuetudine non solo praticare lo sport, ma anche assistervi, celebrando poi i campioni e narrandone le imprese semidivine. Una volta accresciuto l’interesse per il fenomeno, ecco che nasce chi lo sfrutta anche commercialmente, escogitando “prodotti” sia per i praticanti che per gli spettatori, tanto che oggi (da oltre un secolo) lo Sport è diventato un “business” mondiale colossale, amplificato dallo sviluppo delle tecnologie di “comunicazione di massa” che ne permettono sia la (più comoda) “pratica virtuale” che la visione dettagliata, e in tempo reale, di ogni fase delle competizioni (reali). Se si vogliono conservare le antiche tradizioni, lo sport dovrebbe essere dunque una miscela di forza (violenza), sofferenza e sacrificio (da sacrum facere), nobilitati da bellezza, generosità e lealtà ma nella versione più recente delle competizioni (XX secolo) si è messo un limite alle prime tre qualità arrestandole alla soglia, alquanto difficile da definire, del “rischio per l’incolumità” fisica e psichica dei contendenti, vincitori o vinti che fossero.

Il business dello sport-propaganda
Proprio sul problema dell’idoneità e dei rischi che corrono i praticanti a livello professionistico è esploso (in Italia) nei mesi scorsi un “caso” che potrebbe portare a conseguenze drammatiche se non controllato tempestivamente. Giornali e TV hanno parlato a lungo di ginnaste-bambine schiavizzate (“bullizzate”) da istruttori e allenatori (col consenso di snaturati genitori?); ma nessuno collega il fatto al business (economico e politico) dello Sport-Propaganda, in cui i Regimi Nazionali (non importa se democratici o totalitari) non resistono alla tentazione di esibire al mondo i propri “rampolli” per dimostrare  quanto efficacemente si preoccupino della salute e del benessere delle giovani generazioni “per il futuro della Patria” (come dicono poi i Presidenti all’annuale ricevimento che festeggia i campioni che si sono distinti nelle sempre più numerose manifestazioni Internazionali). A questo proposito è doveroso citare anche lo scandalo di alcune “comunità” italiane (ma lo fanno da tempo gli storici Colonialisti Europei) che inviano “talent scout” soprattutto in Africa (o nei Centri di Accoglienza) allo scopo di scegliere, per adottarli in Italia, bambini, svenduti da organizzazioni cosiddette “umanitarie”, da inserire in famiglie che si impegnano, con l’aiuto e il contributo di Gruppi Sportivi opportunamente “attrezzati”, a farne degli atleti capaci di portare “la maglia azzurra” ai massimi vertici mondiali. La pratica è del tutto a norma di legge e si chiama, più o meno, “facilitazione dell’integrazione di immigrato extracomunitario minorenne non accompagnato”; ed è tanto odiosa da meritare un’indagine che porti possibilmente alla denuncia (e alla condanna) di chi promuove e organizza questo tipo di “tratta degli schiavi” camuffata da nobilissima iniziativa umanitaria.

Lavori forzati per minorenni
Ma limitandomi per ora alla cronaca dei casi di sfruttamento (esibizione a pubblico pagante) di bambine e bambini impegnati in competizioni sportive usuranti e pericolose, mi meraviglia che, in un mondo che ha bandito gli animali dai circhi (ma non i trapezisti dodicenni) e che proporrebbe “contratti dignitosi” anche per Cani da Tartufi (possibilmente già inseriti in Nuclei Familiari Anagrafici), nessuno si occupi di impedire tassativamente la partecipazione di atleti minorenni a competizioni sportive, siano esse gare di nuoto, ginnastica, tuffi, pattinaggio ma anche ciclismo e atletica, che richiedono allenamenti massacranti e comportano gravi rischi per la salute fisica e psichica. Oltre ai Giochi Paralimpici (ricco business” nato purtroppo in Italia con le Olimpiadi del 1960) non si vuole fare perdere al pubblico neanche lo spettacolo crudele dei bambini e delle bambine che eseguono, sorridenti, tuffi, capriole e dolorose contorsioni e spaccate, per la gioia dei parenti in estasi e per la curiosità morbosa di un pubblico che conosce per lo più lo sport virtuale delle play-station (oltre all’obbligatorio “foot-ball”, ex “calcio”, somministrato come anestetico e ipnotico ai “sudditi” di tutti i regimi e governi del mondo). Il motivo ufficiale per cui si incoraggia e si agevola (si forza) l’esibizione di bambini (e di disabili) in competizioni sportive del più alto livello è quello di non privare queste categorie, indubbiamente “svantaggiate” e perciò “diverse”, della possibilità di confrontarsi e imporsi, se possibile, ma chissà per quale motivo, a quelle ritenute “normali”. Come se fosse “normalità” correre i 100 metri in meno di 10 (o anche 15) secondi; o saltare 6 metri con l’aiuto di un’asta flessibile fatta di sofisticatissime “fibre”.

Prima è meglio superare se stessi e poi gli altri
In realtà la pratica dello sport si rende indispensabile ai giorni nostri per difendersi dai danni provocati da abitudini sedentarie e poco stimolanti dell’attenzione, ma per questo è sufficiente esercitare (con prudenza e moderazione) i muscoli e il sistema nervoso. La “competizione”, che sembra implicita in qualunque attività sportiva, soprattutto di squadra, può limitarsi invece a superare se stessi, scegliendo solo i momenti più opportuni, e nel più completo anonimato. Io stesso ho praticato per 50 anni con soddisfazione del ciclismo così solitario che potrei elencare e descrivere ancora oggi i rari incontri e le conversazioni con compagni di avventura di cui riuscivo a eguagliare per alcuni minuti la velocità (dopo di che ci si salutava amichevolmente, consapevoli che la probabilità di incontrarsi di nuovo era trascurabile). In questo modo, ho calcolato di avere percorso almeno 8 volte la circonferenza terrestre (cioè 320.000 km in 12.800 ore circa), con quattro cadute (non gravi), innumerevoli forature e senza una sola foto ricordo (a quei tempi non c’erano ancora i “selfie”).

Lo Sport non è uno spettacolo circense
Parliamoci chiaro: lo “sport professionistico” (cioè quello esibito in pubblico e pagato dagli spettatori e dalla pubblicità) deve essere riservato rigorosamente a persone adulte con fisico integro e completamente sviluppato; una “protesi meccanica”, spesso ad alta tecnologia, che compensi (gravi) menomazioni fisiche equivale a un “doping farmaceutico” che sopperisce a carenze metaboliche, circolatorie o nervose; e per fortuna il “doping” dallo sport a tutti i livelli, soprattutto amatoriali, è stato bandito, anche se per gradi, fino dagli anni 60 del secolo scorso, con apprezzabili risultati. Si è capito quindi, quasi ovunque nel mondo, che ciò non è “discriminazione della diversità”, ma sacrosanta protezione delle categorie (nonostante tutto) “deboli”, anche dalla curiosità malsana degli “appassionati”. La curiosità che pervadeva gli spettatori dei Circhi e delle Arene Romane (o gli stadi degli Incas) o coloro che si contendevano le sedie per assistere in prima fila ai ghigliottinamenti (o che ancora oggi scommettono sui pugili piuttosto che su cani, cavalli e galli).

Lo Sport è competizione e non sperimentazione
Un esempio di come ci si dovrebbe comportare in presenza d’un evento che mette a rischio la salute di un pur grande campione lo ha appena dato Sonny Colbrelli, il ciclista vincitore di una leggendaria Parigi Roubaix (2021) che però dopo pochi mesi ha subìto un arresto cardiaco alla fine di una faticosa corsa spagnola. Divenuto portatore di defibrillatore, come l’anno prima era successo al calciatore Eriksen (che da barbaro impenitente gioca tuttora nella propria Nazionale), ha scelto di interrompere la carriera promettente e di svolgere un’attività meno rischiosa, perdendo forse la stima di qualche tifoso, ma assicurando il futuro alla bella e giovane famiglia. La stessa decisione dovrebbe prenderla ogni “farfallina della ginnastica” (o del nuoto) non appena un istruttore o un familiare la sottoponga a regimi di forzatura dello sviluppo (psico)fisico. Osservo solo, e non senza un pizzico di disgusto, che i maggiori quotidiani, che pure hanno commentato negativamente per giorni e giorni la notizia delle sventurate ginnaste, evitano con cura di pronunciarsi sul divieto di partecipazione di minori (e disabili) a manifestazioni sportive “professionali”, e perciò riservate ad atleti adulti ed “integri”, remunerati per conservare ed esibire in forma spettacolare caratteristiche fisiche e psichiche superiori alla norma. Gli “scienziati” fisiologi e psicologi pare non siano mai stati interpellati ufficialmente: come nel caso della pandemia da Covid, saranno in attesa del miglior offerente per scegliere a quale “partito” iscriversi e quale mazzetta prendere. Dopo di che, diventerà subito legge il motto inventato durante la pandemia: “Il Cittadino che vuole usufruire dei vantaggi che la Società gli offre deve seguire la Scienza”.

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