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Ministro Matteo Piantedosi da Napoli, non ci prenda per i fondelli, arresti i capi non i camerieri della Mafia

di Andrea Guenna – L’arresto di Matteo Messina Denaro è solo una barzelletta. Tutti al suo paese – un comune di 12.000 abitanti in provincia di Trapani – sapevano chi era e quelli che l’hanno arrestato sono solo delle comparse (anche una carabiniera) che si sono esibite in un’operazione insignificante, una messinscena d’ordinaria amministrazione. Piuttosto, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi dovrebbe spiegarci come mai non indaga sulla Banca Sicula dove il fratello di Matteo Messina Denaro, tale Salvatore Messina Denaro, era un dirigente. Ceduta nel 1991 e incorporata nel 1994 nella Banca Commerciale Italiana (oggi Intesa Sanpaolo), la Banca Sicula ha rappresentato per un lungo periodo, un “luogo speciale” d’affari dove l’alta borghesia siciliana, certa politica e la mafia stessa trovavano una comoda e legittima adesione ai loro interessi. Negli anni del boom economico (anni ’60) la Banca Sicula divenne potentissima. Molti appartenenti alle famiglie borghesi e mafiose trapanesi facevano a gara per sistemare i loro rampolli nell’istituto. Anche il figlio di Francesco Messina Denaro, Salvatore, trovò occupazione, come anche i figli e i fratelli di illustri politici di molti comuni trapanesi, tra cui Castelvetrano. Alcuni di questi impiegati passarono anche all’Intesa San Paolo.
A capo della banca c’era la famiglia D’Alì Staiti di Cuddìa (Msi) di Castelvetrano che ebbe per molti decenni buone frequentazioni anche con ambienti politici e imprenditoriali. Era al verice della banca insieme alla famiglia Burgarella, e ne ha detenuto dal 1895 sempre la presidenza, prima con Giulio D’Alì Staiti, fino al 1933, cui con Giacomo D’Alì Staiti, fino al 1976.
Nel 1907, con la trasformazione da istituto mutualistico a banca di credito ordinario, fu denominata Banca Sicula, divenendo uno dei punti di riferimento per il credito privato in Sicilia per un lungo periodo.
Nel 1983 l’allora amministratore delegato dell’istituto, Antonio D’Alì, preferiva lasciare la carica e gli gli subentrò l’omonimo nipote e futuro Antonio D’alì jr. (nella foto a lato). Trapanese puro sangue, 71 anni, Antonio D’Alì è stato anche un politico italiano di Forza Italia (Berlusconi & C.), Senatore della Repubblica Italiana dal 1994 al 2018, nonché sottosegretario di Stato al Ministero dell’interno (?) (2001-2006) e presidente della provincia di Trapani (2006-2008).
Ma nel 2022 è stato condannato in via definitiva a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa (ma va?).
Nell’ottobre 2011 la Procura di Palermo chiedeva il suo rinvio a giudizio e nel maggio 2012 e nel giugno 2013 i Pm ottennero la sua condanna a 7 anni e 4 mesi sempre per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ma il 30 settembre 2013 il Gup di Palermo Gianluca Francolini assolveva in primo grado il senatore del Pdl per i fatti successivi al 1994 dichiarando la prescrizione per quelli precedenti.
La Procura annunciava ricorso in appello. Il 23 settembre 2016 la Corte d’Appello di Palermo assolse in secondo grado D’Alì per i fatti successivi al 1994 e dichiarava prescritti quelli precedenti, confermando quindi la sentenza di primo grado.
Tuttavia il 18 maggio 2017 la DDA di Palermo richiedeva al tribunale per D’Alì, addirittura candidato sindaco nella sua città natale (i siciliani sono straordinari), la misura del soggiorno obbligato a Trapani in quanto socialmente pericoloso.
Il 9 agosto 2019 il Tribunale Misure di Prevenzione di Trapani gli impone l’obbligo di dimora a Trapani per tre anni, ma l’11 gennaio 2021 il soggiorno obbligato gli fu revocato dalla corte d’appello di Palermo (?).
Su ricorso della Procura, nel gennaio 2018, i giudici della Corte di Cassazione annullarono la sentenza di assoluzione, con rinvio a un nuovo processo di appello. Il 21 luglio 2021 la Corte d’Appello di Palermo lo ha condannato a sei anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo d’appello bis col procuratore generale che chiedeva la condanna a sette anni e quattro mesi.
D’Alì, considerato vicino ai Messina Denaro, fu inoltre interdetto per tre anni dai rapporti coi pubblici uffici.
Il 12 dicembre 2022 l’ultima sentenza di condanna è stata confermata dalla Corte di cassazione.
Il 14 dicembre 2022 D’Alì s’è costituito al carcere di Opera a Milano.
Intanto un eccellente e leale servitore dello Stato, il Commissario di Polizia Calogero Germanà, siciliano onesto come tantissimi altri, ipotizzava che l’istituto di credito – il cui pacchetto di maggioranza era stato acquisito dalla Comit nel 1991, nel cui consiglio di amministrazione però andava a sedere Giacomo d’Alì (sono duri a morire), cugino del senatore – al pari della Banca Rasini di Milano, fosse uno dei centri utilizzati per il riciclaggio del denaro sporco di Cosa Nostra.
Ora si tratta di capire quale sia stata la storia dell’istituto di credito siciliano e bisogna partire dalla sua fondazione da parte della famiglia D’Alì presente a Trapani dal secolo sedicesimo. Proprietaria di feudi sterminati e delle famose saline, indiscussa protagonista economica e culturale della Sicilia occidentale, la famiglia D’Alì fondò Banca Sicula (oggi Sanpaolo), prima banca privata dell’isola, addirittura nel 1883. La famiglia poi, per tacitare le pretese dei braccianti, affidò il suo latifondo alla solida mafia della Valle del Belice. Uno di questi mafiosi, Francesco Messina Denaro, don Ciccio (Castelvetrano, 20 gennaio 1928 – Castelvetrano, 30 novembre 1998), capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento, padre del noto boss Matteo Messina Denaro, ottenne da loro parecchia terra e divenne – di fatto – l’alter ego del barone, posizione che gli permise di diventare il capo della mafia trapanese.
Negli anni Settanta si scoprì che avere la terra e avere una banca erano un bel prerequisito per sistemare in loco una raffineria di eroina, che infatti sorse sulle colline di Alcamo: l’unica in tutta Europa. La Banca Sicula esplose coi profitti da eroina e giunse ad avere sessanta sportelli. Nel 1988 aumentò il suo capitale di 30 miliardi di lire, prima di confluire nella Comit nel 1991 e infine in Banca Intesa San Paolo.
Don Ciccio, latitante, morì d’infarto nel suo letto. Era il 30 novembre 1998. Il patriarca lasciava due figli: Salvatore, discreto dirigente della Banca Sicula, era stato appena condannato per mafia, il secondo, Matteo, è la primula rossa di cui oggi si parla come dell’ultimo capo di Cosa Nostra, arrestato nei giorni scorsi.
La domanda sorge spontanea: perché, signor ministro Piantedosi, non indaga su Antonio D’Alì, facendo riaprire il fascicolo che lo riguarda a proposito delle indagini del 2011 per concorso esterno in associazione mafiosa, stranamente assolto il 30 settembre 2013 dal Gup di Palermo Gianluca Francolini in primo grado, quando era senatore di Forza Italia (Berlusconi) per i fatti successivi al 1994, dichiarando la prescrizione per quelli precedenti.
Perché signor ministro Piantedosi, non obbliga la Corte d’Appello a riaprire il fascicolo per l’assoluzione del 23 settembre 2016 per i fatti successivi al 1994 dichiarando prescritti quelli precedenti, confermando quindi la sentenza di primo grado in base anche alla richiesta del 18 maggio 2017 da parte della la DDA di Palermo che ha richiesto ufficialmente per il politico siciliano, candidato sindaco nella sua città natale, la misura del soggiorno obbligato a Trapani, in quanto socialmente pericoloso?
Il 9 agosto 2019 il Tribunale Misure di Prevenzione di Trapani gli impone l’obbligo di dimora a Trapani per tre anni, ma l’11 gennaio 2021 il soggiorno obbligato gli fu incomprensibilmente revocato dalla corte d’appello di Palermo.
Perché ministro Piantedosi da Napoli non fa revocare quella revoca anche alla luce della decisione della Corte di Cassazione del gennaio 2018 che annullava la sentenza di assoluzione, con rinvio a un nuovo processo d’Appello?
Perché, ministro Piantedosi da Napoli, non fa riaprire il processo della Corte d’Appello di Palermo che ha condannato D’Alì a sei anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo d’appello bis per una condanna esemplare?
Ministro Piantedosi da Napoli, sono tutte domande d’un piemontese discendente di uno dei frequentatori dell’Officina la Bienfaisance di Via Pontida ad Alessandria che, nel 1821, con Carlo Alberto, Santorre di Santarosa, Andrea Vochieri, Antonio Rivaro, Ferdinando Isola, Domenico Figini, ha favorito i moti del 1821, prodromo del Risorgimento Italiano. Eroi che a carissimo prezzo hanno fatto l’Italia che dopo più di 150 anni ha sempre a che fare con la Mafia che in Piemonte – lo tenga presente ministro Piantedosi da Napoli – prima non c’era. Ne è valsa la pena?

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