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DA CORRADO PARISE

PERCHÉ LASCIO IL PD
Ho aderito con grande speranza al progetto del Partito Democratico, contribuendo a fondarlo ad Alessandria e onorandomi della carica di primo Coordinatore cittadino, eletto con elezioni primarie in una vicenda che, al di là degli schieramenti, fu di grande passione politica e civile, come altre simili in Italia. Il Pd doveva essere un “partito nuovo, non un nuovo partito”. Quel partito che attraverso il rinnovamento di se stesso e del sistema politico italiano, si proponeva di costituire il principale elemento del rinnovamento dell’intero Paese, il perno dell’Italia Nuova. Doveva, quindi, farsi interprete non solo di un antiberlusconismo e di un antileghismo di facciata, ma attore di un vero rinnovamento morale e civile, prima ancora che politico.
La stagione dell’entusiasmo e della speranza è durata ben poco. Una vera e propria controriforma ha riportato indietro di decenni l’orologio del partito. Nel giro di pochi mesi tutti coloro che si erano avvicinati con quei sentimenti si sono riallontanati, delusi, come un’alta marea estemporanea e prematura. Da forza innovatrice e riformatrice, il Pd è diventato nei fatti un partito di conservazione dell’esistente ed impotente rispetto alle esigenze di profondo cambiamento che la società italiana attende e di cui il sistema-paese ha urgente necessità.
Solo la storia chiarirà tutti i motivi di questa sconfitta. Oggi ciascuno di noi può solo tentare di dire la sua sui sintomi più evidenti della difficoltà. Un primo fallimento riguarda la questione morale. Non solo nel significato di rispetto delle leggi, ma prima ancora nell’accezione che rimanda ad una perduta cultura dell’altro – i cittadini – e dello stato, considerati spesso non come il fine ma come il mezzo dell’azione politica individuale.  Individuale, giacché la mai raggiunta cultura – liberale e libertaria – dell’individuo e della comunità, ha lasciato spazio a un individualismo  di fatto molto simile a quello rimproverato da decenni alla destra italiana. Il partito così è vissuto come mero strumento e trampolino di lancio per questa o quella carriera amministrativa, non come mezzo di partecipazione dei cittadini e strumento di rappresentanza reale della società. Lo stato, come strumento e opportunità di accumulazione di potere e benefici, non come entità aurea per l’assicurazione rigorosa dei servizi essenziali e dell’aiuto ai più deboli. Nella generale crisi di rappresentanza delle principali istituzioni pubbliche e private italiane, il Pd non fa eccezione, ma il debito è più evidente, se eravamo nati proprio per colmare quel vuoto.
Una seconda sconfitta riguarda la capacità riformatrice e innovatrice. Nonostante le intenzioni e i proclami, il partito si pone come elemento di vischiosità e di freno, sia a livello locale sia a livello nazionale, al di là delle rare eccezioni, peraltro vissute come elementi di devianza e non d’avanguardia. Ne è testimone la percezione diffusa nella larga parte dell’elettorato, nei giovani e nelle forze più nuove e dinamiche della società italiana. Il Pd è visto come parte di un sistema da cambiare, non come attore di cambiamento. Di fatto, si pone come epigono di una tradizione antica di governo nazionale e locale, di essa conservando soltanto la mera gestione del potere e del denaro pubblico, non la capacità di rappresentazione del presente e di proiezione nel futuro dei territori governati. La mancanza di coesione interna più volte invocata come causa di tutti i mali del partito, appare piuttosto come l’inevitabile effetto dell’incapacità di autorinnovamento. Come nelle famiglie disfunzionali, il conflitto permanente è l’inevitabile approdo dell’incapacità dei genitori di accettare la soggettività e l’autonomia dei figli. L’impotenza rispetto alle esigenze di ordine morale e di giustizia civile prima che politica, è forse uno degli aspetti più dolorosi della vicenda del Pd, che si pone oggi – amaramente – come uno dei tanti elementi, direbbe Pasolini, dell’anarchia del potere italiano.
Più volte ci siamo tutti interrogati sul perché della sofferenza del partito e sui possibili rimedi. Sono fra quelli che ha sempre sostenuto che il rinnovamento diffuso e profondo del ceto dirigente fosse improcrastinabile, pena una lenta asfissia. Forse è il caso di prendere atto che questa è un’operazione storicamente impossibile, non alla portata di nessuno dentro il partito, oggettivamente, quindi al di là delle stesse intenzioni dei singoli. E di riflettere sulla non originalità dell’intera operazione Pd. Non è tanto, credo, la cosiddetta fusione fredda fra diverse culture politiche l’origine dei mali del partito. Forse, essa è da cercare nell’impossibilità che vecchie culture e vecchi gruppi dirigenti, formatisi in un secolo e in un mondo che non esistono più, possano dare vita a qualcosa di nuovo.
Ho sbagliato, insieme ad altri, ad insistere forse troppo nell’attesa e nella lotta per un cambiamento che tardava ad arrivare, nella convinzione forse ingenua che chi non è in grado di cambiare se stesso, non ha né il diritto né la possibilità di cambiare un Paese. Proprio in nome di questa consapevolezza, credo non sia più corretto, nemmeno in nome di grandi ideali e di grandi volontà, continuare a condurre lotte che si riconoscono come infeconde. Sono convinto che la parte più importante del progetto del Pd siano le idee e la speranza che lo costituirono. Con tutti coloro che le conservano, so che ci ritroveremo da qualche parte, un qualche giorno.
Per questi motivi, ho deciso di non rinnovare la tessera di iscrizione del 2011 e vi prego di prendere atto, conseguentemente, della decadenza dagli organi direttivi.
Un cordiale saluto,
Corrado Parise

 

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