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L’ITALIA È LA PATRIA DELLE PANZANE MA ORA PROVIAMO A DIRE LA VERITÀ ALMENO SUL 2 GIUGNO, OVVERO: QUANDO I VOTANTI SONO RISULTATI DI PIÙ DEGLI STESSI ISCRITTI AL VOTO

di Andrea Guenna – Come fa l’Italia a risollevarsi se i suoi cittadini non hanno – perché non li possono avere – una coscienza di Patria ed il senso dello Stato? Come fa l’Italia ad essere considerata un bene comune da tutti gli italiani se basa le sue fondamenta su un mucchio di menzogne? Come fa l’Italia ad essere orgogliosa del suo passato se questo passato annovera tradimenti, opportunismi, delitti di ogni genere? Lo stesso Inno Nazionale è stato scritto da un Patriota, Goffredo Mameli, morto a soli 22 anni il 6 luglio 1849 mentre combatteva sulle barricate a Roma in difesa della Repubblica Romana contro il potere temporale del Papa Re. Ma come fa l’Italia ad essere orgogliosa dei suoi eroi se lo stesso Garibaldi, considerato un brigante, fu ferito dai bersaglieri piemontesi sull’Aspromonte che gli spararono il 26 agosto 1862? Ma come fa? E come fanno gli italiani a fidarsi di chi li governa se appena dopo il fascismo moltissimi fascisti erano in parlamento in qualità di politici antifascisti inneggianti alla Liberazione? Voltagabbana che appena hanno potuto sono saliti sul carro del vincitore. Ma non solo i politici, perché anche intellettuali e giornalisti hanno cambiato casacca in fretta e furia come Enzo Biagi, balilla, avanguardista, membro della Gioventù italiana del littorio e del Gruppo universitario fascista, Giorgio Bocca, fascista, Eugenio Scalfari, fascista, Dario Fo, combattente volontario in camicia nera per la Repubblica Sociale Italiana. Nel 1942 Eugenio Scalfari, il fondatore del quotidiano La Repubblica, scriveva: “Un impero del genere (l’Italia fascista, n.d.r.) è tenuto insieme da un fattore principale e necessario: la volontà di potenza quale elemento di costruzione sociale, la razza quale elemento etnico, sintesi di motivi etici e biologici che determina la superiorità storica dello Stato nucleo e giustifica la sua dichiarata volontà di potenza”. E Giorgio Bocca su La Provincia Granda il 4 agosto del 1942 scriveva: “Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa della guerra attuale. La vittoria degli avversari sarebbe una vittoria degli ebrei. A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea, in un tempo non lontano, d’essere lo schiavo degli ebrei?”. Non è tutto perché, venendo a noi, recentemente lo stesso presidente Mattarella ha accettato la nomina da un Parlamento che lui  stesso, un anno prima, in qualità di giudice della Corte Costituzionale aveva dichiarato incostituzionale.
Ma i mali dell’Italia, che sono i grossi difetti degli italiani, non sono una novità, sono mali antichi, oserei dire atavici, secolari, se lo stesso Dante nella Divina Commedia ebbe modo di scrivere: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!” (Purgatorio; Canto VI – versi 76-151). Senza i sentimenti di forte appartenenza alla Patria comune, gli italiani sono destinati, oggi più che mai, al declino. Basta guardare il popolo tedesco, compatto, orgoglioso, leale, e quello inglese che non si è mai arreso in tutta la sua storia. Nessun tedesco e nessun inglese metterebbe mai in discussione la Patria, la lealtà verso lo Stato, l’impegno di non lasciare nessun connazionale indietro. E invece in Italia appena si arriva nella stanza dei bottoni si ruba, ci si riempiono le tasche. Poi si tradisce appena le cose si complicano e ci si mette a disposizione di chi vince. Ma come possono gli italiani essere credibili, come possono essere considerati affidabili? Traditori e mentitori, ecco cosa sono. A tutto ciò hanno contribuito certe frange comuniste che hanno tentato, forzando la storia e approfittando della situazione, di raggiungere il potere con la violenza. Certi comunisti, prima hanno negato i loro crimini, e poi hanno addossato la responsabilità di quei crimini sulle spalle degli altri. Si sono forse dimenticati di quando fomentavano le più assurde lotte studentesche degli anni settanta che hanno portato al progressivo sfascio della scuola? Ed oggi si lamentano perché la scuola è ridotta com’è ridotta. Si sono  forse dimenticati degli scioperi selvaggi e politici che hanno distrutto la classe media e la media impresa? Ed oggi si lamentano perché non c’è lavoro. Si sono dimenticati cos’erano le Brigate Rosse e quello che ha più volte dichiarato Alberto Franceschini, uno dei fondatori, comunista, figlio e nipote di comunisti, che ha definito il terrorismo rosso come la continuazione della lotta partigiana per il trionfo del comunismo? Come fa l’Italia, questa Italia, a risollevarsi se, per esempio, non è mai stata fatta piena luce sul referendum “Repubblica o Monarchia” del 2 giugno 1946? Come fanno certi politici considerati “Padri della Patria”, che ovviamente sapevano perfettamente come erano andate le cose, a non sentire un profondo senso di colpa essendo al corrente che il 4 giugno i carabinieri, a metà spoglio, comunicarono a Pio XII che la Monarchia si avviava a vincere, e che nella mattinata del 5 giugno, De Gasperi annunciò al Re Umberto II che la Monarchia aveva vinto?
Forse si sono dimenticati che ad un certo punto circa 200 funzionari (si fa per dire perché erano trinariciuti armati pronti a tutto) furono mandati surrettiziamente al Viminale (praticamente lo hanno occupato con la forza) dal ministro della giustizia Togliatti (che era, non dobbiamo dimenticarlo mai, il segretario di Stalin, membro del Comintern in rappresentanza dell’URSS e che, nel 1930, prese la cittadinanza sovietica) per la revisione di 35.000 verbali circoscrizionali e sezionali? Forse si sono dimenticati delle indegne pressioni ed intimidazioni che avrebbero influenzato i giudici della Corte di Cassazione? Dopo che i rapporti dell’Arma dei Carabinieri, presente in tutti i seggi, segnalarono al Ministro degli Interni Romita la vittoria della Monarchia, iniziarono una serie di oscure manovre, ancora non del tutto chiare, per cui nella notte tra il 5 ed il 6 giugno i risultati si capovolsero in favore della Repubblica con l’immissione di una valanga di voti di dubbia provenienza. La cosa non ha mai convinto gli italiani onesti che hanno cercato e cercano di capire cosa sia veramente successo, anche perché sommando le nuove schede elettorali alle precedenti il numero dei votanti era addirittura superiore agli iscritti al voto, per cui i voti giunti al ministero dell’Interno all’ultimo momento, che avevano dato la vittoria alla repubblica, sarebbero scaturiti dal nulla.
Per quanto riguarda
il referendum monarchia-repubblica non si contano le irregolarità, le proteste, le schede sparite e quelle “costruite” che si calcola siano state 1,8 milioni, per far vincere la repubblica. Gianni Minoli, il bravo giornalista Rai, trent’anni fa ci ha rimesso il posto per aver detto queste cose.
La decisione di affidare ai cittadini la scelta risaliva al 25 giugno 1944, 20 giorni dopo la liberazione di Roma e l’insediamento di Umberto di Savoia (nella foto a Cascais nel 1982 con papa Woityla) al vertice dello Stato come luogotenente di Vittorio Emanuele III che si mise in disparte. In Italia la guerra finì il 2 maggio 1945. I tedeschi si arresero agli angloamericani che il 4 maggio assunsero il controllo dell’Italia settentrionale prendendo sotto tutela le amministrazioni comunali e provinciali nominate dal Comitato di Liberazione Nazionale. A fine giugno 1945 si formò il primo governo dell’Italia liberata presieduto da Ferruccio Parri esponente del Partito d’azione. A dicembre Parri fu sostituito da Alcide De Gasperi, capo della Democrazia Cristiana. Nel marzo 1946 quasi 20 milioni di cittadini elessero i consigli comunali di 5.580 comuni. Per la prima volta votarono anche le donne. Non si registrarono incidenti gravi. Maturità democratica e monarchia coesistevano. Il governo De Gasperi comprendeva ministri dei sei partiti del CLN: liberali, democristiani, Partito d’azione, democratici del lavoro, socialisti e comunisti. Con la sola eccezione di Leone Cattani (liberale) e Mario Cevolotto (Democrazia del Lavoro), tutti i ministri erano repubblicani. All’Interno era il socialista Giuseppe Romita, ministro per la Costituente il suo compagno Pietro Nenni, alla Giustizia il capo dei comunisti Palmiro Togliatti. Il 16 marzo 1946 furono indette le votazioni: il referendum sulla forma dello Stato e l’elezione dell’Assemblea Costituente. Dal voto furono escluse le province di Zara, Pola, Fiume, Trieste e Gorizia, quasi completamente nelle mani della Iugoslavia comunista del maresciallo Tito, e quella di Bolzano, che non aveva nessun problema di ordine pubblico. Non poterono votare i prigionieri di guerra ancora trattenuti all’estero. Molti italiani non votarono perché “epurati”. Parecchi di loro fecero ricorso e ottennero ragione, ma solo a referendum concluso. Secondo i dati ufficiali, pubblicati due anni dopo, i cittadini chiamati alle urne il 2-3 giugno 1946 furono 28 milioni. Il ministro dell’Interno dichiarò che il 5 per cento degli aventi diritto non venne rintracciato e quindi non ebbe il certificato che abilitava al voto. Sappiamo però che decine di migliaia di elettori attesero invano il certificato. Alcuni, invece, ne ebbero più d’uno. A Umberto II ne arrivarono due. Nelle Memorie, l’ammiraglio Antonio Cocco dice di averne ricevuti quattro. Quanti casi del genere si contarono? Romita fece stampare 40 milioni di certificati elettorali e 20 milioni di modelli sostitutivi. Decisamente troppi. La lotta pro e contro la monarchia fu durissima. Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III passò la corona al figlio, Umberto, e partì per Alessandria d’Egitto. Al Consiglio dei ministri Togliatti protestò violentemente perché, secondo lui, l’esule violava la “tregua istituzionale”, decisa dal governo di Ivanoe Bonomi nel 1944, di cui le sinistre non avevano mai tenuto conto. Nenni minacciò: “La repubblica o il caos”. Il nuovo re sciolse i dipendenti pubblici dal giuramento di fedeltà affinché votassero in piena libertà di coscienza e compì un rapido viaggio per l’Italia. Fu accolto da masse festanti. Il 31 maggio da Genova annunciò che, se la monarchia avesse vinto, gli italiani sarebbero stati chiamati alle urne per confermare sia la nuova Costituzione che la forma dello Stato. Fu un grosso errore: la controversia non poteva trascinarsi a lungo e, poiché divideva gli animi, in un modo o nell’altro andava chiusa. Votarono circa 24 milioni 950 mila cittadini: l’89,1 per cento degli aventi diritto. Che cosa accadde veramente nei seggi e nello spoglio delle schede? Impossibile dirlo con esattezza. 
Nella notte fra il 4 e il 5 Togliatti dichiarò a un anonimo giornalista del Corriere della sera che la repubblica avrebbe vinto con 2 milioni di vantaggio, perché, tenne a precisare, il 10 per cento dei democristiani aveva votato per la repubblica. Curiosamente, ci azzeccò. Il 10 giugno l’intimorito presidente della Corte di Cassazione, Giuseppe Pagano, fece leggere i risultati: circa 12 milioni 700 mila per la repubblica, 10 milioni 700 mila per la monarchia. Mancavano ancora gli esiti di 114 sezioni. Nell’attesa, chiuse la seduta senza dichiarare chi avesse vinto.
Su 35.000 seggi si contavano 31.000 contestazioni. In aggiunta ci fu anche quella del monarchico Enzo Selvaggi, il quale chiese che la vittoria fosse calcolata non sulla base dei voti validi, bensì, come diceva la legge, su quella dei votanti. 
Molte le anomalie come quella per cui  sin dal 4 giugno decine di migliaia di cittadini denunciarono di non aver potuto votare. Molti non avevano ricevuto i certificati, altri scoprirono che qualcuno aveva già votato a nome loro e furono allontanati dai seggi. A migliaia gli analfabeti dichiararono di essere stati ingannati: avevano domandato come si votasse per la monarchia e i presidenti di seggio avevano detto che dovevano fare una croce sulla “regina”, che in realtà era il simbolo della repubblica. Un numero incalcolabile di cittadini protestò con il comandante alleato in Italia, ammiraglio Ellery Stone, dichiarando che volevano votare monarchia e Democrazia cristiana o una lista monarchica.
Alle 15.30 del 5 giugno 1946 la Regina partì dal Quirinale con i figli Maria Pia, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella e Maria Beatrice. S’imbarcarono a Napoli sull’incrociatore Duca degli Abruzzi, appena rientrato da Alessandria d’Egitto. Dopo due giorni di tensione, alle 0.30 del 13 giugno, pressato dal Consiglio dei ministri e col voto contrario del solo Cattani, De Gasperi assunse i poteri di capo dello Stato. Il re aveva cenato a casa di Luigi Barzini jr. Dormì al sicuro. Rientrò al Quirinale la mattina e ne partì alle 15 per Ciampino alla volta del Portogallo. Da re. Denunciò il “gesto rivoluzionario” del governo e De Gasperi replicò che a quel modo Umberto II chiudeva con una pagina indegna un periodo decoroso. Il 18 giugno la Corte di cassazione respinse a maggioranza il ricorso presentato dal monarchico Enzo Selvaggi. Contro il parere del procuratore generale e del presidente, la Corte stabilì che “votanti” non significava “chi vota” ma chi esprimeva un voto valido. Perché la Suprema corte sentenziò a quel modo? Semplice: se si fosse tenuto conto dei voti nulli (schede bianche, annullate e contestate, che erano circa 1 milione 500 mila) il divario tra monarchia e repubblica sarebbe sceso da 2 milioni a 250.000. Una differenza minima che avrebbe anche potuto rimettere in gioco il risultato. E poiché la verifica dei verbali di seggio era stata fatta alla svelta tra il 15 e il 16 giugno quando quei famigerati 200 “funzionari”, mandati da Togliatti a liquidare la cosa, fecero andare le cose in un certo modo, sarebbe stato necessario ricontrollare le schede. Ma sin dal 10 giugno Togliatti aveva detto che erano state distrutte (ma va?). Così la partita fu chiusa.
Il re ormai era in esilio.
Dal 18 giugno la Gazzetta ufficiale iniziò a datare gli atti della Repubblica.
Il 1° gennaio 1948 entrò in vigore la Carta costituzionale che all’articolo 139 dichiara immodificabile la forma dello Stato. Vittoriosa grazie a una controversa cifra di voti sulla quale pesavano gravi interrogativi, la Repubblica fu blindata: prima con la mancata verifica, scheda per scheda, della validità dei risultati, poi con la Costituzione, che quasi 11 milioni di monarchici dovettero accettare.

Con questi presupposti, con questa miserabile storia patria fatta di inganni, tradimenti e menzogne, con questo andazzo che affonda le sue radici nella notte dei tempi e viene da lontano, come fanno gli italiani a guardare in faccia alla realtà, a sperare nel futuro? È una brutta storia la loro, e lo stesso principe Metternich, al congresso di Vienna del 1815, ebbe modo di dire: “La parola Italia è un’espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle”. Forse, ahimè, non si sbagliava. Eravamo nel 1815 e a distanza di due secoli non è cambiato molto. E lasciamo perdere il Duce, “buonanima” come lo chiamava Craxi, che ha regalato agli italiani lo stato sociale, con le pensioni, la cassa malattie, la previdenza e l’assistenza sanitaria, che questi qua stanno smantellando. Ecco perché dubito fortemente che gli italiani possano farcela, stavolta. Perché, a differenza che in passato, stavolta non li salva più nessuno. Ma spero di sbagliarmi, ovviamente. Resta il fatto che né il 25 Aprile, né il 2 Giugno sono feste condivise, perché la maggioranza silenziosa degli italiani sa che sono due feste costruite dalla politica e dal volere dei vincitori (Alleati e Urss). Vincitori che hanno raccontato un sacco di balle agli italiani. Perfino Bella Ciao, la presunta canzone dei partigiani, gli stessi partigiani non cantarono mai perché era una canzone delle contadine di Piacenza cui ha cambiato le parole Enzo Biagi nel 1948.
Si dice che la storia la scrivono i vincitori, ma vincere così fa schifo.

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