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La ricerca medico-sanitaria vista da un “paziente affezionato” nel corso di tre quarti di secolo

(prima parte) Incomincio allora da qui la storia vera delle mie peripezie medico-sanitarie, come cavia (fortunata) delle stravaganti evoluzioni della “ricerca” medica, così bene assistita da quella paramedica, che, essendo più povera, cioè meno motivata (con l’eccezione di non pochi uomini e donne votati alla santità), e più stressata dal tipo di mansioni e dai pesantissimi turni, è causa di ulteriori disagi e sofferenze per i malati, i quali allora reagiscono nei modi più disparati, sia sopportando pazientemente, sia ribellandosi apertamente, sia modificando autonomamente e a volte tragicamente le disposizioni impartite dai loro dispotici ma insostituibili “padroni”.

L’antiestetico “gozzo”
Ripartendo dalla mai dimenticata operazione alle tonsille del lontano 1949 (subita per semplici questioni di “moda” e in condizioni di chirurgia veramente “artigianale”, seduto a faccia avanti sulle ginocchia di un infermiere incaricato di trattenere le mani del bambino, non anestetizzato, dietro la schiena), non salto subito al primo “accidente” cardiaco del 2006, perché un altro episodio, pur non avendomi procurato grosse difficoltà con la congrega dei medici arruffoni, avendolo evidenziato il meno possibile, ha ugualmente segnato per sempre la mia vita. Infatti nel lontano 1974, in seguito a insistenti infiammazioni alla gola (non così strani, in un freddo gennaio) mi fu diagnosticato uno “struma” (non ancora grosso nodulo) tiroideo, classificato benigno ma, a detta degli stregoni dell’epoca, destinato a degenerare in maligno entro 3-5 anni. Pur non avendo assunto nessun farmaco specifico e avendo condotto una stressante vita normale (frequenti viaggi, un po’ di sport e le solite contrarietà), sono qui a raccontarlo dopo ben 40 anni: ma a tutt’oggi non c’è ricercatore medico che, vedendomi, non mi consigli di asportare “subito” tiroide e organi circumvicini . E’ vero: il gozzo mi fa brutto, ma mi ha disturbato solo meccanicamente, e è da incoscienti consigliare a un settantenne una simile operazione, sapendo che è sopravvissuto non molto tempo fa a due infarti consecutivi e all’asportazione di un tumore “raro” risultato maligno alla biopsia. Ma ciò che più mi indigna è che in tutte le occasioni (dal nodulo tiroideo in poi) mi sono messo invano a disposizione degli ospedali visitati, per  cercare insieme ai medici le cause dei non trascurabili “incidenti” a cui bene ho male sono scampato. Così, non potendo usare la comodissima scappatoia della “familiarità” e non trovando nulla di anormale nel mio fisico (né diabete, né obesità) e nello stile di vita (né fumo, né alcool, moderata attività fisica), tutti i miei guai sono stati “curati” senza conoscerne l’origine, segno della scarsità di interesse e di razionalità nella ricerca, nonostante sia tanto esaltata da ogni intellettuale e politico. Sia nel caso del nodulo tiroideo, che in quello del tumore alla gamba, sono stato correttamente sottoposto ad accertamenti: nel caso del nodulo, l’agoaspirazione; per il tumore alla gamba la biopsia su un grosso campione di cute (tre o quattro cm di lunghezza) che ha fornito il verdetto di tumore maligno. Ma il materiale dell’agoaspirazione è stato eliminato e quello della biopsia trasferito all’ospedale dove sono stato operato, e poi riconsegnato (dai miei parenti) a quello che mi ha praticato la biopsia, dove forse è conservato in un frigorifero non so immaginare a quale scopo, perché non è associato ai dati che mi riguardano. La massa tumorale che mi è stata tolta con l’operazione a Milano è finita addirittura in un laboratorio di Bologna (previa mia liberatoria), ma neanche quella è corredata coi miei dati: mi dicono che sia usata per ricerche genetiche (DNA), ma mi chiedo che cosa se ne possa ricavare senza altre informazioni personali (e ripeto che si tratta di un tumore “raro”, da cui si potrebbero trarre informazioni preziose perché anch’esse rare, e invece non se ne fa niente, se non statistiche).

I due infarti
Alcune metodiche (trattamenti, che dovrebbero portare a risultati utili alla ricerca) sono veri e propri attentati inutili alla vita del paziente: ecco infatti per la prima volta la storia vera ed esemplare dei miei due infarti, sopravvenuti nel giro di due settimane all’età di 65 anni, il primo senza alcuna avvisaglia caratteristica o motivo scatenante (e nessuno dei sintomi che i ricercatori continuamente ci sciorinano per riconoscere in tempo utile l’infarto che, se non riconosciuto, e quindi non curato, lascia solo circa tre ore di vita, così essi dicono, a chi ne è affetto). In un bel giorno di settembre, dopo un pranzo men che frugale in un “self service”, è incominciata un’intensa sudorazione, anomala. dato il tempo tiepido e l’assenza di sforzi fisici. Perdurando il fenomeno dopo 6-7 ore, ma senza altri sintomi, mi sono rivolto al servizio di Guardia Medica, che a Milano è efficiente, ricavandone una diagnosi di sospetto infarto con ricovero immediato al Pronto Soccorso. Qui l’analisi del sangue ha dato  il fatale responso di “infarto in atto” (ma erano passate più di dieci ore dal primo allarme) a causa della presenza in eccesso rispetto ai valori normali del noto enzima “troponina”. Ben tre cardiologi hanno cercato di convincermi a sottopormi “subito” a coronarografia con eventuale angioplastica; conoscendo io vagamente il trattamento della “trombolisi”, meno invasivo, insistetti perché mi fosse praticato. Nonostante mi sentissi ormai molto meglio, non accettarono di dimettermi, né di ripetere le analisi  per verificare l’esattezza della prima (stranamente ciò mi venne concesso invece otto anni più tardi in una situazione simile e nello stesso ospedale, concludendosi con esito negativo e dimissione senza nessun trattamento, dopo otto ore di ansia in una notte d’inverno). Tornando all’”incidente” iniziale, avevo sottostimato l’avvertimento degli stessi cardiologi che in quell’ospedale la trombolisi, che pure era stata praticata con successo per oltre mezzo secolo, non si usava quasi più, il che significava, ma non lo capii allora, che quasi nessuno dei medici, relativamente giovani, sapeva più che cosa fosse.  Sia come sia: tutto sembrò finire con tre giorni di terapia intensiva, tre di osservazione “in reparto” e poi dimissioni, con appuntamento dopo una settimana per controllo e inizio di sedute bisettimanali per riabilitazione. Nessuna domanda sulle mie condizioni generali soggettive (dolori o altri disturbi a organi diversi dal cuore), prescrizione di cinque o sei pillole al giorno e nitroglicerina per eventuali nuovi attacchi con i “soliti” sintomi, che del resto io non ho mai conosciuto.

Il risveglio
Fatto sta che la notte precedente l’appuntamento per la prima seduta riabilitativa (una settimana dopo le dimissioni) mi sveglio alle quattro con la respirazione del tutto bloccata, non per strangolamento, ma per arresto di tutta la muscolatura toracica, nonostante avessi sufficiente forza per alzarmi dal letto, camminare per la casa e chiedere aiuto con un filo di voce, appena sufficiente per parlare al telefono coi soccorritori del 119 che si sono attivati immediatamente. Poi oscuramento graduale della vista, senza dolori né perdita delle forze, ma con la netta sensazione di morire. E invece eccomi di nuovo sveglio (senza la nozione del tempo) in un luogo sconosciuto, completamente bianco e deserto, appeso braccia e gambe (e naso e bocca) a innumerevoli tubetti terminanti con aghi dentro il mio corpo e, all’altra estremità, varie boccette di liquidi trasparenti appese a trespoli; parallelamente ai tubetti un buon numero di cavi collegati con apparecchi elettronici (con monitor), che emettevano suoni a un ritmo regolare; e la sensazione netta di almeno un corpo estraneo che mi fruga il cuore allo stesso ritmo dei “bip” dell’elettronica circostante.  Dopo una “paziente” attesa appaiono i primi esseri umani in camice blu e verde che azionano le molte appendici dei miei arti, chiacchierando fra loro, ma non con me (non avrei potuto rispondere, in ogni caso, a causa delle fitte “intubazioni”). Sarà stato l’effetto della morfina, l’euforia per avere conservato qualche funzione vitale e anche la constatazione di non essere (ancora) morto, ma la mia attenzione era al massimo e anche il “morale” era alto, pur conoscendo la gravità delle mie condizioni. Finalmente qualcuno mi rivolse la parola, la prima di una serie di ordini, che durarono un paio di giorni, ai quali non potevo reagire, ma solo obbedire. Il terzo giorno un nipote mi preparò una tabella con grandi lettere maiuscole sulle quali potei formulare brevi parole, indicando le lettere con le dita libere, per rispondere ai medici, stupiti per la genialità della trovata (figuriamoci che cosa ci si possa aspettare dalla “ricerca” svolta da scienziati così perspicaci).

La felice perdita di un incisivo
In questa seconda occasione il periodo “intensivo” durò più a lungo, anche perché si trattava di mettere al passo il ritmo del cuore mediante stimolatori elettrici introdotti dal femore e dal braccio, e nello stesso tempo di liberare i polmoni dall’acqua accumulata durante l’arresto respiratorio: chi ha letto romanzi che descrivono torture medioevali (ma anche nel XXI secolo non scherzano) può capire che cosa significhi arrivare al limite del soffocamento quattro o cinque volte in due sedute giornaliere sotto le grinfie di due grosse infermiere, una delle quali imbraccia una specie di cornamusa, che finisce in gola, e l’altra trattiene, giustamente, quel poco del corpo del paziente che potrebbe ancora tentare di divincolarsi sentendosi strozzare. Ma anche tutto questo finì “felicemente” (con la sola perdita di un dente incisivo), salvo un breve arresto cardiaco, prontamente recuperato per  la fortunata presenza di due medici pronti a praticare il massaggio (un bel pugno sullo sterno), e causato dall’errore di un infermiere nel dosare la quantità di ossigeno da immettere nei miei martoriati polmoni attraverso il tubo nel naso.
Il “clou” della fase intensiva, e anche la parte più emozionante perché indica la probabile fine del pericolo di morte, è l’estrazione, senza anestesia, con una mossa rapidissima da prestigiatore che fa sprizzare il sangue fino al soffitto, dell’armamentario che va dall’inguine (vena femorale) al cuore, che così rimane senza “assistenza” ed è costretto da allora in poi ad autoregolarsi, senza cadere in balìa della fibrillazione che indica probabilmente un esito poco felice dell’intervento e richiede l’applicazione del recente ritrovato ormai di gran moda e fra i “top ten” delle prescrizioni mediche: il “defibrillatore”. Sono frequenti i casi di pazienti che, entrati in sala operatoria per installare il semplice e collaudato “pacemaker”, ne escono con un defibrillatore in sovrappiù, il quale è uno scatolotto sottocutaneo alquanto ingombrante e delicato da usare (sarà miniaturizzato e semplificato certamente nei prossimi anni).

Metodi pseudoscientifici
Per finire il racconto del secondo infarto, aggiungo che il “primario” responsabile del fallimento del primo intervento mi ha fatto un imbarazzato discorso per giustificarsi, ma anche per farmi capire che era inutile che ne facessi un “caso”, perché anche dimostrando che avevano sbagliato loro, c’era pur sempre la “liberatoria” da cui risultava che avevo rifiutato l’angioplastica che essi mi offrivano. Prima che replicassi, cambiò argomento affrontando quello della “ricerca”, che sapeva che mi interessava, proponendomi però solo di far parte di un numeroso gruppo di “volontari” per la sperimentazione di nuovi farmaci: alla metà di essi avrebbero propinato acqua fresca (“placebo”) e all’altra un nuovo farmaco per cure cardiache. Dopo un certo numero di anni, contando le vittime del nuovo farmaco rispetto all’acqua fresca, avrebbero deciso se metterlo sul mercato oppure no; naturalmente rifiutai (avrei voluto rimanere alla larga dai medici per il resto della mia vita, ma non andò così); comunque è questo uno dei metodi pseudoscientifici usati dalla “medicina” in combutta con la “farmacia”: una cosa che per un tecnico (e per ogni persona di buon senso) grida vendetta, ma che nessun luminare  medico si permette di criticare o per lo meno di regolamentare in modo scientifico. In ogni caso nessuna indagine fu fatta non dico per l’errore della trombolisi, ma almeno per studiare l’origine fisiologica, ossia la causa eventualmente addebitabile al mio fisico, del primo infarto (ammesso che fosse infarto). Si sarebbe potuto ricercare, in seguito a formale denuncia alla Magistratura, se il secondo infarto (vero) non potesse essere ascrivibile ad errori commessi nel diagnosticare o nel curare il primo, ma a che pro? Ingenuamente direi: per aiutare la ricerca; e così mi chiedo di nuovo quale sia per questi bei soggetti la definizione di “ricerca” (quando ancora non mi conoscevano, le visite di controllo periodico terminavano con raccomandazioni del tipo di non fumare più, di fare più moto e di evitare i grassi, dimenticando che non ho mai toccato una sigaretta, mi facevo in bici da corsa oltre 7000 km all’anno e sono quasi vegetariano). (Segue).

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