Press "Enter" to skip to content

La ricerca medico-sanitaria vista da un paziente “affezionato” nel corso di tre quarti di secolo

(seconda parte) – Forse i due infarti consecutivi (con relativi medicinali per terapia d’urto e mantenimento successivo) e, certo, la vecchiaia che non fa sconti nonostante i lunghi tempi di attesa, hanno scatenato certi inconvenienti rimasti dormienti nel mio organismo per decenni. Da bambino (anni ‘40) ricordo il vecchio dottore, con impressionante barbone bianco, come nei film, che mi raccomandava di non trascurare i denti che erano già malandati a causa della mia passione per i dolci; la sua predizione era che, se cariati, i denti avrebbero creato focolai di infiammazione e, in seguito, tumori.

La medicina d’antan
I vecchi dottori con barba, a quei tempi si chiamavano “medici curanti” e non “di base”, perché nei limiti delle loro possibilità curavano davvero, rendendosi disponibili giorno e notte per poche lire, ossia centesimi di euro; insomma erano molto più bravi di quelli di oggi, ex-giovanotti abbronzati, molto spesso in vacanza e più spesso a “congressi”, preferibilmente negli Stati Uniti. Io non gli badai, sia per timore del dentista, sia perché a quel tempo era la gola il mio punto debole, tanto che a otto anni, come ho già raccontato, fui sottoposto all’operazione di tonsille-più-adenoidi, come del resto tutti i miei coetanei, che poco più tardi venivano privati anche dell’appendice, al cui taglio io sono scampato. È possibile che il vecchio babau avesse ragione; era apprezzato specialista in “medicina del lavoro” e con figlio già affermato radiologo, di quelli pallidi e emaciati che lavoravano indossando il grembiule di piombo e che morivano prima dei loro pazienti a causa della lunga esposizione ai raggi X (o Roentgen), troppo “duri” e non sufficientemente schermati.

I Raggi X
Racconto tutto ciò per fare notare quanto fosse più difficile e rischioso, rispetto ad oggi, fare ricerca medica 80 anni fa (e quanto fossero giustificabili gli scarsi risultati, nonostante gli sforzi di professionisti veramente dedicati al lavoro, fino a morirne). Forse l’ho già scritto, ma ripeto che dai primi del ‘900 e ancora ben più tardi delle due famose bombe di Hiroshima e Nagasaki, si riteneva che i “Raggi X” fossero la soluzione per quasi tutti i problemi diagnostici e fossero anche un’ eccellente terapia per molte malattie, prima fra tutte il “tumore”, nome generico appioppato tuttora a troppi disturbi sconosciuti, che stupidamente vengono “curati” con il medesimo altrettanto sconosciuto rimedio che è la radioterapia.

Dica trentatré
Tornando alle mie magagne, forse sono state risvegliate dagli infarti e comunque sono sfuggite all’occhio, fattosi meno clinico, degli specialisti. Chi si è più sentito chiedere “dica trentatré”, o “mi mostri la lingua”, o “vediamo i bulbi oculari”? O chi si è più sentito esplorare con lo stetoscopio, che ormai penzola dalle tasche dell’ultima delle infermiere, mentre allora era prerogativa esclusiva e “distintivo” del medico? Mi raccontava una giovane cardiologa che, grazie allo stetoscopio, che lei appoggiava ovunque sul corpo dei pazienti, aveva scoperto una quantità di aneurismi ormai voluminosi e maturi per uccidere a breve il cardiopatico, sul cui cuore solamente si concentrava l’attenzione dei medici, del resto già poco interessati alle condizioni generali del paziente: quando una brava anestesista mi chiese se sapessi l’origine del grosso neo alla radice della coscia e io risposi che credevo che fosse dovuto allo sfregamento contro la sella della bici da corsa, non insistette, commentando solo che doveva essere una gran brutta sella quella che usavo; lei il suo dovere l’aveva fatto: dei nei si doveva occupare una dermatologa.

Le specializzazioni odierne
Infatti uno dei gravi difetti della scienza moderna è la “specializzazione”, praticamente inevitabile, a causa della vastità di conoscenze che un medico dovrebbe possedere per prevenire o curare tutte le malattie che incombono su un essere umano, che per di più si è talmente arricchito di difese, biologiche o tecnologiche, da raggiungere età impensabili solo mezzo secolo fa. Così un cardiologo, per esempio, si deve occupare solo di ciò che sta dentro o nell’immediata prossimità del cuore. Per non sbagliare, una primaria di cardiologia di mia conoscenza  ha messo nero su bianco che se un paziente pone quesiti ai suoi collaboratori che non riguardino strettamente il cuore, non gli si deve rispondere, rinviandolo al “medico di base”, mandando così a ramengo un altro caposaldo della Ricerca Medica: la prevenzione. Infatti si dice per esempio che l’infarto si faccia annunciare a volte da forti dolori alle braccia o alla schiena, ma il paziente non potrebbe chiederne il motivo durante una visita cardiologica; dovrebbe tornare dal medico di base, che non sa che pesci pigliare e, dicono le statistiche, il malato è spacciato entro tre ore.

Il neo sospetto
Per fortuna le statistiche sbagliano e il paziente oggigiorno non è stupido: si precipita al Pronto Soccorso, che in teoria dovrebbe riuscire a salvarlo, anche se spesso, e come nel mio caso, per tentativi. Comunque non tutti i medici sono come la primaria suddetta e così l’abilissima chirurga che mi praticò la coronarografia (ovvero angioplastica) mi fece notare che proprio a un paio di centimetri dal foro usato per raggiungere la vena femorale c’era quel neo “sospetto” grande come una moneta, che però tenevo senza inconvenienti da una trentina d’anni. Lo mostrai al medico di base, che mi prescrisse un noto “gel”, usato di solito per curare il mal di schiena. Io lo provai una sola volta sul neo, che in pochi giorni divenne grande come una noce, fino a impedirmi di camminare. Ormai l’intervento del dermatologo era inevitabile e i due specialisti consultati concordarono sull’asportazione della “noce”, che col passare dei mesi aveva raggiunto dimensioni preoccupanti; ma c’era il problema della necessità di un’anestesia totale, poco indicata per un cardiopatico. Per non restare inattivo, mi feci eseguire la biopsia (una bella fettina di 3 cm di pelle in anestesia locale), che diede il responso temuto: dermatofibrosarcoma (praticamente un melanoma), per di più maligno, da asportare “con urgenza” (e ci vollero consueti tre mesi di attesa) all’Istituto dei Tumori, a cui forse avrei dovuto rivolgermi fin dall’inizio (diagnosticandomi da solo il raro tumore maligno)?
Fu un magistrale lavoro di plastica, che coinvolse a turno otto persone, in anestesia locale (epidurale, che significa due bei fori nella schiena fra due vertebre inferiori): l’operazione durò meno di due ore, ma la guarigione, che tuttora, dopo tre anni, non può chiamarsi tale, quasi due mesi, a causa del drenaggio; il tutto a domicilio, con l’aiuto di un infermiere, perché la permanenza in ospedale è durata tre giorni, a causa della quantità di richieste di asportazione di nei (per lo più inutile) di cui ho già parlato. Riconosco l’impegno dei medici nel pianificare ed eseguire l’operazione, che mi ha causato un solo conato di vomito a causa del portantino “sportivo” che col lettino mi ha riportato di corsa in camera dopo l’intervento, ma è qui che devo criticare la completa assenza di una metodica per la ricerca.

La schedatura del paziente
In presenza di un malato di cancro maligno e raro (ma la critica vale per ogni tipo e livello di gravità), ecco tutto ciò che l’ospedale, altamente specializzato e noto nel mondo, fondato dal sig. Veronesi e condotto, ci si attende, secondo le sue direttive, chiede di sapere:  generalità del paziente (per l’anagrafe), misure fisiche (peso e altezza, per determinare l’IMC, a scopi statistici), anamnesi medica generica (malattie gravi, croniche, quali il diabete, o incidenti), eventuali allergie ai medicinali usati in un’operazione chirurgica, uso di fumo e alcolici (non si chiede se si fa uso di droga); si studiano i risultati della biopsia (che non è frequente fare prima dell’intervento, come invece ho chiesto io, mentre si esegue di solito sul materiale asportato). Invece una ricerca appena appena “coscienziosa” richiederebbe secondo me di conoscere anche, e tassativamente, purché ce ne sia il tempo, naturalmente.

  1. Luogo geografico di nascita, di residenza e di lavoro, oltre ad altri luoghi frequentati per vacanze, lavoro o altro.
  2. Eventuali familiarità di cancro (del medesimo o di altri tipi).
  3. Tipo di lavoro, ambienti di lavoro, mansioni e turni.
  4. Mezzi di trasporto usati, aerei in particolare, con durate approssimative dei viaggi.
  5. Attività (o inattività) extralavorative (per esempio sportive o parasportive, ma anche artistiche o assistenziali).
  6. Abitudini alimentari, sessuali, intellettuali (livello di istruzione incluso, con le scuole frequentate).
  7. Funzionalità, se nota, di tutti gli organi e apparati fisiologici  (con indagini in caso di dubbi).
  8. Stato di salute, se noto e “interessante”, di conviventi o di colleghi di lavoro (lo stato psichico, evidentemente, dovrà stabilirlo il medico, possibilmente uno psicologo, come ricordo che già mezzo secolo fa esistesse proprio all’Istituto dei Tumori, ma ora non più, almeno per i casi “di scarso rilievo”, come il mio, appunto; alla Riabilitazione Cardiologica del CTO di Milano invece c’è, o c’era, una psicologa che visita regolarmente e frequentemente, e proficuamente, i reduci da operazioni al cuore).

Praticamente tutte queste indagini violerebbero la “privacy”, ma i medici e i paramedici non son tenuti al segreto professionale? E, anche se non lo fossero, non sono tenuti anzitutto a guarire il paziente, ma anche a contribuire a scoprire (e debellare) le cause che l’hanno reso ammalato, prevenendo così la diffusione della malattia, come si sente dire adesso nella campagna “pro-vaccinazioni”?

Il cancro
È comunque sorprendente che non vengano poste queste domande, né si prenda nota di dichiarazioni fatte spontaneamente dall’ammalato. Ci sono centinaia di tipi di cancro, più diffusi, a causa di sconosciuti agenti naturali, in certe regioni che in altre, molti non noti e tutti con caratteristiche diverse fra loro: mi chiedo perché si continui a parlare di cancro del sangue, delle ossa, della mammella, del cervello, della pelle, eccetera, quando non si sa nemmeno se ciò che chiamano genericamente “cancro” abbia un’origine comune, per esempio un virus (sarebbe bello: si trova un vaccino e tutto è risolto). Sarebbe ora di raggruppare con nomi diversi i cancri provocati da cause diverse, per esempio (ma la lista sarebbe lunghissima) dall’amianto, dalla nicotina, dal catrame, da un isotopo radioattivo o da un particolare tipo di radiazione (X, alfa, beta, gamma, neutrone, radiofrequenza, raggi infrarossi o ultravioletti, raggi laser), da enzimi o alimenti in genere che vengono chiamati “cancerogeni”, ma solo in base al “principio di precauzione”, ossia per non ammettere l’ignoranza.

L’Intelligenza Artificiale
Questa lista, con tutte le sue inesattezze, già permetterebbe di separare i ricercatori in gruppi di formazione diversa, ma dedicati a una stessa tipologia di tumore, evitando che in più Paesi del mondo si ricerchi la medesima cosa, spendendo il doppio e ottenendo la metà, dato che in teoria la vera Scienza è quella che impone di condividere ricerche e scoperte col maggior numero possibile di scienziati: fanno così col Clima, che è nettamente diverso al Polo e all’Equatore, non si capisce perché non lo dovrebbero fare col Mesotelioma (il cancro provocato dall’amianto e materiali affini), che è uguale in ogni parte del mondo (e verosimilmente nello Spazio, sulla Luna e su Marte). Insomma, questa impostazione porterebbe a risultati eccezionali in poco tempo e a costi ridotti. Raccogliendo in un unico computer i dati di un medesimo problema provenienti da tutto il mondo si sfrutterebbero i vantaggi offerti dalla cosiddetta Intelligenza Artificiale (A.I.), quella bella trovata che, subito introdotta nei laboratori di ricerca prima degli anni ’80, e in seguito nei progetti spaziali, è miseramente fallita per la faciloneria degli informatici, e tuttora regredita al meschino ruolo di soggetto per film di fantascienza, perché impostata così male che ci si è rassegnati prima del 2000 a cambiarle nome e a usarla solo per prenotare i posti in cinema e teatri o a sistemare il numero di letti nelle stanze di ospedale a seconda della maggiore o minore richiesta di posti per uomini, donne o bambini. Eppure era stata inventata proprio per dare un tremendo impulso alla scienza medica e a risolvere problemi di riordino di procedure che generano confusione e ingiustizie, come i Codici Penali di alcuni Paesi, quali, mi dicono, la Gran Bretagna, che sono basati sulla tradizione piuttosto che su rigide regole coerenti. Obiettivo dell’Intelligenza Artificiale era ed è anche quello di essere autoapprendente e perciò di potere aggiungere addirittura nuove invenzioni a quelle immesse dall’operatore nella sua supermemoria intelligente, producendo un salto di qualità della ricerca inimmaginabile ( illusione degli scienziati di ogni tempo: di creare macchine pensanti e creative, possibilmente anche dotate di “sentimenti”, come quelle sognate da E.T.A. Hoffmann nei suoi Racconti).

Chirurghi e oncologi
C’è da chiedersi ora con quali informazioni contribuirò personalmente alla Ricerca dopo il transito all’Istituto dei Tumori. Certamente la gran parte del materiale (sono state scattate molte foto durante l’operazione) riguarda l’esecuzione della “plastica”, che si mormorava non si fosse fatta da ben 14 anni e quindi evidentemente ad opera di chirurghi diversi con tecniche diverse (si trattava di asportare una fetta di carne “buona” dalla parte esterna della coscia destra e di rimontarla, sperando che attecchisse, nella zona interna inguinale della stessa coscia, proprio all’attacco dello scroto e in prossimità di numerosi linfonodi che fortunatamente dopo due mesi di abbondante drenaggio sembrano aver messo giudizio, sistemandosi alla meglio e presentando dopo tre anni solo un leggero ingrossamento rispetto al normale. Del tumore è stato asportato tutto quanto si è potuto senza intaccare il muscolo e i testicoli, e a quanto sembra ciò è stato sufficiente a evitare recidive locali e metastasi: ma questa è un’ulteriore prova di maestria chirurgica e non di cura del cancro. La parte malata, come già detto, è stata inviata in un laboratorio bolognese che si occupa del DNA prelevato a soggetti affetti da cancro, ma, non essendo associato ad altri dati clinici (soprattutto alla biopsia eseguita tre mesi prima e il cui materiale è rimasto a Milano), non contribuisce a scoprire né l’origine né l’evoluzione della malattia. Insomma la ricerca sul cancro non ha ricevuto alcun vantaggio dalla mia (rara) operazione, ma proprio perché dissociata dai dati, comunque mancanti, che ho elencato sopra e di cui parlerò nella prossima puntata per provare, ancora una volta, come le risorse destinate alla ricerca medica vengano sconsideratamente sprecate e come le informazioni che potrebbero chiarire alcuni annosi misteri vengano stupidamente ignorate.

Comments are closed.