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ADOZIONI: NIENTE CAMPAGNA PER “BIMBI IN SALDO”

L’adozione è, nell’immaginario comune, una delle espressioni più compiute dell’accoglienza e della generosità. Parlo naturalmente dell’adozione straordinaria. Cioè quella attraverso cui un bambino, per lo più proveniente da un Paese del terzo mondo diventa a tutti gli effetti figlio di una coppia con figli o frequentemente senza.
Il percorso di tale incontro è stato reso volutamente complesso dalla legislazione italiana e internazionale. Troppo elevati i rischi che la principale richiesta a cui si dava una risposta, fosse quella di avere un figlio, piuttosto che la necessità di dare dei buoni genitori a un bambino. Non sempre la laboriosità burocratica delle procedure, a base di snervanti test psicologici e colloqui con assistenti sociali, prima della sospirata e fatidica sentenza di adottabilità, ha risolto tutti i problemi. Offre comunque un sistema di garanzie per prevenire i rischi più gravi.
Ciò nonostante nessuno ha ancora osato descrivere un fatto che nel mondo della psicologia degli adolescenti e dei servizi sociali appare ormai evidente. Molte adozioni internazionali, anche quelle realizzate con tutti i crismi della legge, dell’etica e delle buone intenzioni, vanno incontro a esiti disastrosi. Io stesso nella pratica professionale dell’ultimo decennio ho visto decine di casi, prima e dopo il raggiungimento della maggiore età, di vere e proprie esplosioni di scompenso famigliare e di reciproca aggressività.
È difficile dare una spiegazione compiuta e accettabile. Certamente il sentimento di sradicamento e di estraneità tra «comunque diversi» pesa più della gratitudine e delle buone intenzioni. Questa premessa di fronte alla questione di Haiti serve soltanto a sottolineare come sia estremamente pericoloso dare il via a una sorta di «acquisizione in saldo» di migliaia di bambini sradicati. Capisco l’umanissimo desiderio di portarsi a casa, come un pargolo divino, uno di quei meravigliosi bambini dagli occhi smarriti o di quelle bimbette con treccine colorate, che sembrano uscite da un presepe di dolori presenti e di gioie future. Occorre però sempre ricordare che queste creature diventeranno giovanottoni e ragazze con aspirazioni, incertezze, nostalgie e forse persino risentimenti per un mondo di ricordi che, per quanto devastati e devastanti, è comunque quello delle loro radici e della loro identità.
Meglio quindi un’adozione a distanza, che consenta loro di essere sostenuti efficacemente, rimanendo a contatto con una dimensione magari di gruppo e di famiglia allargata di zii, nonni e parenti desiderosi di mantenerlo con sé. Certo, il percorso sembra più complicato e insoddisfacente, ma sicuramente un bambino, che non è un cucciolo da acquistare, starà in una storia che comunque è ben piantata nelle sue pur precoci esperienze, e comunque con domande che non potrà non porsi su passato e futuro.
Qualora qualcuno voglia mettersi generosamente a disposizione per aiutare potrà offrirsi per l’umanissimo statuto dell’affidamento, il massimo del dono di chi si mette a disposizione per amare, aiutare e servire, senza necessariamente possedere per sempre.
Donare vuol dire essere pronti a dare, anche senza nulla ricevere in cambio. È ciò che più contrasta con le pulsioni elementari del nostro egoismo narcisistico, ma è quello di cui, più di ogni altra cosa, gli ultimi della terra hanno davvero bisogno. Non di essere repentinamente deportati nel nostro meraviglioso luna park, ma di essere aiutati a crescere nella loro identità e nella loro storia. Diceva Gandhi «Se vuoi aiutare un uomo che ha fame, non dargli un pesce ma insegnagli a pescare». Potrà sembrare paradossale ma questo approccio vale anche di fronte alla nostra generosità, ora purissima e nobile, ora un po’ nebulosa e opaca, se non pelosa, di portarci a casa da un giorno all’altro uno di quei bambini, che venga a placare per un po’ la nostra solitudine e inesausta domanda di senso sulla vita.

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