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ROMA? MA LA SI DOVEVA LASCIARE AL PAPA, ALTRO CHE ROMA CAPITALE!

di Carlo Grossi – C’è veramente da chiedersi quali ragioni hanno potuto tra il 1860 e il 1870 (ma anche prima) aver spinto una parte degli italiani – non certo la maggioranza, per la quale il problema era indifferente, ma una minoranza accesa ed infatuata, che aveva in mano la cosa pubblica – a volere tanto ardentemente Roma capitale, fino a sentire la necessità di conquistarla con la forza, a dispetto della regola storica secondo la quale è la capitale a conquistare le province, non le province a conquistare la capitale. In effetti il motivo è uno solo, ossia quello delle reminiscenze classiche, di cui erano pervasi gli ambienti dirigenti, in altre parole il ricordo storico di quello che era stata Roma all’epoca della sua grandezza imperiale, concetti espressi nella letteratura, nei discorsi politici e nella stampa, e anche in lapidari motti, dall’eroico almeno a parole “Roma o morte”, al più prosaico e banale “Roma capitale necessaria”. Si pensava, cioè, a Roma per il suo antico prestigio di caput mundi, ma dato che caput mundi non lo era più da millecinquecento anni, ma non era il caso di proclamarla capitale d’Italia, passando sopra a inconvenienti che non erano di millecinquecento anni prima ma attuali. La scelta di-Roma come capitale d’Italia non era suffragata né da ragioni storiche, né da ragioni geografiche. Non erano infatti rilevanti le considerazioni storiche perché capitale d’Italia Roma non lo è mai stata: non lo è stata nel periodo dell’Impero Romano, del quale era, sì, la capitale, ciò che però non significa che lo fosse anche per l’Italia, essendo questa una provincia come le altre, non uno Stato autonomo, che quindi una capitale non poteva avere. E nemmeno lo è stata dal Medioevo in poi, perché, dopo la caduta dell’Impero d’Occidente, le capitali d’Italia sono state Ravenna con Odoacre e i Re Goti, Pavia coi Longobardi, coi Carolingi e con gli altri Re del Regno d’Italia feudale, sempre incoronati a Milano con la corona ferrea custodita a Monza, e infine Milano per i brevi periodi della Repubblica Cisalpina e del Regno napoleonico. E nemmeno per considerazioni geografiche la scelta di Roma capitale poteva apparire giustificata: sotto questo profilo vecchio Roma si trova al centro della Penisola, ma ciò non ha importanza alcuna: sono forse Parigi e Londra al centro dei loro Stati? No certamente, ma ne sono le vere capitali, rispettate ed indiscusse, perché da oltre un millennio ne sono il cuore, non solo politico, ma anche civile, economico, produttivo e culturale, oltre che – ciò che non manca d’importanza – contributivo; senza voler tener conto poi del ratto che, con l’avvento delle ferrovie, che avevano enormemente ridotto i tempi dei viaggi fino allora commisurati al passo del cavallo, la centralità geometrica, già nel secolo scorso, non aveva più importanza e meno ancora ne avrebbe avuto in quelli a venire, dato il predominio, per le lunghe distanze, dei collegamenti aerei. Se poi si dovesse considerare come vero centro d’Ita1ia non-quello puramente geometrico, ma quello delle caratteristiche generali soggettive e oggettive; è a dire che Roma non è affatto a1 centro, ma al Sud, perché, da que1 punto di vista, centro d’Italia è la Toscana, non il Lazio: ed infatti, chi da Milano o da Torino arriva a Firenze ha la sensazione di non essere più in una città del Nord, ma·non certo quella di trovarsi in una città de1 Meridione, mentre a Roma, clima, menta1ità, usi, costumi, etc., fanno intendere che ci si trova in una città de1 pieno Sud, non essendo 1e sue caratteristiche molto diverse da quelle di Napo1i, di Bari o di Palermo. Ai fini di e1eggere Roma capita1e non avevano quindi pregio alcuno né le considerazioni storiche, né quelle geografiche, ma ne avevano invece moltissimo quelle negative. Ci riferiamo sopra tutto alle condizioni civili ed amministrative de11a Roma papale, che a tutti g1i osservatori dell’epoca, soprattutto agli attenti viaggiatori ing1esi, appariva la più arretrata ed inefficiente tra le città italiane, con le capre che pascolavano in Piazza Barberini e tra 1e rovine del Foro ed i briganti che infestavano l’agro circostante, fino a Maccarese e alla Magliana, e al fatto che 1a sua popo1azione era costituita da una plebaglia .tracotante e oziosa, abituata da secoli a ricevere sovvenzioni, aiuti e distribuzioni di viveri, e da un’aristocrazia non certo migliore, che anch’essa aveva sempre goduto di benefici, incarichi e sinecure, priva di iniziative concrete e talmente inco1ta che aveva a 1ungo considerato gli antichi monumenti uti sua, ricavandone marmi preziosi non solo per la costruzione, ma perfino per le fondamenta dei suoi palazzi. Tale massa fiacca e indolente era certamente inadatta a divenire la popolazione stabile di una città capitale di uno Stato moderno: in sostanza, i motivi per cui era preferibile che non fosse tale erano ancora quelli per i quali l’Imperatore Costantino l’aveva trasferita altrove! Roma era allora una pessima capitale per l’Impero, lo è stata anche per lo Stato Pontificio e non vi erano motivi per pensare che sarebbe stata una capitale migliore per il Regno d’Italia. Dal 1870 in poi la situazione, col passare dei decenni, si è andata sempre più aggravando, man mano che lo Stato si è attribuito funzioni che prima non aveva, per le quali sono stati creati – naturalmente con sede in Roma – enti, istituti, organizzazioni ed uffici, statali, parastatali, previdenziali, etc. occupati da impiegati di esclusiva estrazione locale (o immigrativi dal contiguo meridione ) che vi hanno apportato l’inefficienza amministrativa e organizzativa tipica dello Stato Pontificio e del Regno delle Due Sicilie, sconosciute nel vecchio Piemonte, nel Lombardo-Veneto e nella Toscana dei Lorena: uffici che, se la logica avesse prevalso, avrebbero dovuto essere impiantati  stabilmente nelle Regioni dove la produzione economica e il giro degli affari li rendevano più necessari, mentre il loro concentramento nella capitale, oltre a produrre disservizi-e disfunzioni, ha creato il disagio, per gli operatori economici, di fare sempre capo, per ogni più banale necessità, ad essa, dove la lentezza burocratica delle pratiche ha fatto sì che l’epiteto elogiativo di Città Eterna assumesse un significato concreto, per l’eternità della loro durata. Roma capitale ha messo l’Italia intera alla mercé di una burocrazia ministeriale e paraministeriale cronicamente pigra e inefficiente, impersonata dai pronipoti dei neghittosi impiegati dell’amministrazione papalina che tante indisponevano l’energico Segretario di Stato di Pio IX, l’ex militare belga Monsignor De Mérode, e che ora a tali poco lodevoli qualità aggiungono quella di un indisponente arroganza, espressa anche dal pressoché costante uso dell’eloquio italo-romanesco che cinema e televisione cercano di convertire in lingua nazionale, dai cui toni strascicati e stanchi appare la tipica tendenza naturale al risparmio di energie fisiche e le cui truculente espressioni rivelano l’antica familiarità della plebaglia romana coi fatti di sangue, come nel classico “te possino ammazza’!” o nel frequente uso di questo verbo per indicare meraviglia, compiacimento e disappunto, coll’altrettanto classico “ammazza che roba !” e con altre piacevolezze del genere. Avevano quindi più che ragione quegli ottimati piemontesi come Massimo d’Azeglio, suo fratello Roberto e i vari Balbo, Sclopis, etc., a inorridire all’idea di avere Roma come capitale, capitale che avrebbe dovuto restare dev’era, nella “regale Torino”, dotata di ben maggiore spirito europeo, alla quale non si doveva fare il torto di declassarla a favore di una città che per la causa italiana non aveva fatto assolutamente nulla, visto che, come non era insorta quando Garibaldi era a Mentana, non ha mosso un dito nemmeno quando Cadorna era davanti alle sue mura, e se proprio si fesse temuto che, con capitale Torino, l’Italia sarebbe stata troppo piemontese, si poteva lasciarla dov’era stata portata per la Convenzione di Settembre, che in fondo era pur sempre in vigore, ossia-a Firenze “la più importante città del mondo per la cultura e per l’arte, la città di Dante e di tanti grandi intelletti, ricchissimi di tradizioni italiche, ben più significanti delle antiche glorie imperiali romane, retta fino allora dall’ottima amministrazione, ancor oggi rimpianta, dei suoi .granduchi lorenesi, abitata da una popolazione vivace e intelligente, che era immeritevole di essere considerata una capitale provvisoria, promossa tale tanto per tappare un buco. Che se poi non si vo1evane né Torino né Firenze, vi era Milano, già capitale d’Italia all’epoca napoleonica e che lo era ancora per il Regno Lombardo-Veneto, la cui efficienza amministrativa – purtroppo andata perduta – è ancor oggi ricordata, città centro dell’Italia, non solo economico e produttiva, ma anche culturale, perché vi viveva un rigoglioso agglomerato di menti illustri, letterati, studiosi, artisti e musicisti, e vi operavano gli illuminati editori che pubblicavano le loro opere. C’erano·poi Genova e Venezia, le cui antiche tradizioni repubblicane non erano ormai più in contrasto con l’unità raggiunta in forma monarchica (a Mazzini non dava più retta nessuno) che erano città vive, pullulanti di attività mercantili ed armatoriali, le cui popolazioni erano di mentalità aperta a tutto il mondo, che, per mezzo dei loro naviganti, ben conoscevano e che alcuni ritenevano, come città marinare, le più adatte ad essere capitale di uno Stato peninsulare dotato di una così lunga fascia costiera. E ciò che valeva anche per Napoli, popolarissima, ma abbellita della magnificenza borbonica. Considerazioni tutte che dimostrano che vi era solo l’imbarazzo della scelta, ma delle quali non si è tenuto conto alcuno, visto che si è adottata la soluzione più infelice, della quale l’Italia intera porta ancora, e purtroppo porterà, le tristi e lamentate conseguenze. La risposta è semplice. Roma doveva essere lasciata al Papa e ciò anche nel suo interesse, e i primi a capirlo sono stati proprio i romani che Del ’70 hanno accolto, come si è detto, con freddezza e ostilità i nuovi venuti. Non era, infatti, per la Città Eterna, più conveniente e prestigioso restare la capitale ecumenica della Chiesa Universale, ossia essere ancora, sotto quel profilo, Caput Mundi? In sostanza è quanto riteneva il grande storico tedesco Ferdinando Gregoriovius (l’autore dell’immortale opera  “Storia di Roma nel Medioevo”) che in tanti anni trascorsi nella Roma papale conosceva più di  qualsiasi romano la città. Secondo quell’insigne studioso (uno di quei coltissimi tedeschi impregnati di classicismo fino all’osso – aveva perfino latinizzato in Gregorievius il proprio cognome di Gregoriowski – innamorati di quell’Impero che, sorto a Roma, era poi passato in mani germaniche che lo avevano sorretto e portato avanti come Sacro Romano Impero- dal Medioevo all’epoca napoleonica) il concetto di Roma era strettamente correlato all’universalità. Per lui, tedesco di nazionalità e protestante di religione, la Chiesa Cattolica Romana, che dell’Impero era stata per tanto tempo l’antagonista e il contraltare, ma che aveva avuto una vita ad esse parallela, manteneva la funzione storica di perpetuarne il concetto dell’universalità, irradiate Urbi et Orbi da quella che era stata la culla dell’uno e dell’altra: per questo, una volta caduto con l’apertura della breccia di Porta Pia il potere temperale dei Papi e divenuta essa una capitale come tutte le altre, il sue interesse per la Città Eterna è venute meno, per cui ha deciso di lasciarla definitivamente e di tornare alla natia Germania, non senza avere nei suoi “Diari Romani” amaramente commentato tale evento con queste significative parole : “Roma perderà l’aria di repubblica mondiale che ha respirato per diciotto anni: essa discende al grado di capitale degli italiani. Roma ha perso così il suo fascino e il sue incanto”. Ma era proprio necessario farle perdere il suc fascino e il suo incanto, degradando1a a capitale di uno Stato nazionale, tra l’altro non di prima grandezza in Europa? Una volta che – beno o male che ciò sia stato – l’unità italiana era stata costituita, non avrebbe potuto lo Stato Romano della Chiesa continuare ad esistere, limitato a Roma e al Lazio, che, piccolo o grande, era pur sempre la proiezione nel tempo dell’antico impero universale? Era quanto riteneva un altro grande studioso della Roma medioevale, il francese Louis Duchesne, scrivendo che, in fondo, i cannoni di Bonaparte nel 1797 e di Cadorna nel 1870 avevano sparato sull’Impero Romano, distruggendone le ultime vestigia, che sarebbe stato più saggio mantenere. Certamente, il rimanere fuori dello Stato italiano avrebbe create per la città di Roma qualche problema amministrativo, perché non avrebbe avuto – come ha – un’intera Italia e, soprattutto, un Nord ai suoi piedi per sovvenzionare le sue necessità, alle quali avrebbe dovuto provvedere da sola, ciò che non era affatto impossibile, anche perché la sua popolazione stabile, senza l’arrivo di enormi masse impiegatizie dovuto ad una più grande organizzazione statale, sarebbe stata molto minore, per cui le sue opere pubbliche avrebbero potuto limitarsi a quelle puramente indispensabili, con esclusione di quelle di prestigio che, come costruzioni moderne, potevano solo deturpare, non certo migliorare, la sua fisonomia architettonica. La magnificenza del suo immenso patrimonio di monumenti classici, di fontane e di ponti, di palazzi antichi, di musei e di giardini, avrebbero continuato a costituire un richiamo turistico senza paragone al mondo, capace di attirare per sempre un enorme numero di visitatori, oltre all’infinità di pellegrini che avrebbero continuato ad arrivarvi per la presenza del Pontefice ed i riti della Chiesa, il che le avrebbe certamente consentito l’autosufficienza economica. In compenso le sarebbero state risparmiate le spaventose brutture per le quali non crediamo che possa essere grata all’Italia. Roma, insomma, avrebbe mantenuto intatto il suo fascino e il suo incanto e, rimanendo la storica “repubblica mondiale” della quale per tanti anni aveva respirato l’aria Ferdinando Gregorovius, avrebbe evitato di discendere al modesto rango di “capitale degli italiani ” come purtroppo ha voluto una ristretta, ma impulsiva minoranza, infatuata di reminiscenze sco1astiche.

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